Trattativa Stato-mafia Napolitano attacca la procura di Palermo Secondo il presidente della Repubblica le registrazioni delle telefonate tra lui e Mancino non dovevano essere "né registrate né ascoltate". Sollevato "un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale". Messineo: "Non sono state violate le prerogative costituzionali del Capo dello Stato". Rita Borsellino: "Mi sento schiaffeggiata da Napolitano" Il nuovo Vittorio Emanuele III dovrebbe dimettersi "Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha oggi affidato all'Avvocato Generale dello Stato l'incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato; decisioni che il Presidente ha considerato, anche se riferite a intercettazioni indirette, lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione". Il 16 luglio, a tre giorni dalla commemorazione del 20° anniversario della strage mafiosa di via D'Amelio in cui furono assassinati il giudice Paolo Borsellino e tutti gli agenti della sua scorta, con questo secco comunicato del Quirinale il capo dello Stato ha annunciato il suo ricorso alla Consulta per decidere il destino delle telefonate intercorse tra lui e l'ex senatore ed ex ministro dell'Interno democristiano Nicola Mancino, intercettate e custodite dalla procura di Palermo in ordine all'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia del 1992-93. In sostanza con questa clamorosa iniziativa che apre un conflitto istituzionale senza precedenti tra il Quirinale e la magistratura, vista l'impraticabilità di una via giuridica ordinaria per obbligare i giudici palermitani a non depositare agli atti le intercettazioni e anzi a distruggerle immediatamente, Napolitano mira a ottenere un pronunciamento della Corte che riconosca lese le sue prerogative costituzionali, così da arrivare per altra via allo stesso risultato pratico. E con la conseguenza, forse inconsapevole o forse inconfessata, ma comunque oggettivamente inevitabile in caso la Corte gli dia ragione, di una grave delegittimazione dei pubblici ministeri (pm) palermitani che spianerebbe quasi certamente la strada a un'avocazione dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. La mossa di Napolitano rappresenta quindi un attacco frontale ai pm palermitani titolari dell'inchiesta, il procuratore aggiunto Ingroia e i sostituti Di Matteo, Del Bene e Sava, una loro oggettiva sconfessione, e il fatto che egli si copra dietro la presunta violazione delle prerogative costituzionali proprie della sua carica, sostenendo nel comunicato che egli è mosso unicamente dal dovere di trasmetterle "al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura", non può bastare a stornare il sospetto che sia invece proprio il contenuto di quelle intercettazioni che egli teme sia reso noto. La mobilitazione dei "corazzieri" Già alcuni giorni prima l'inquilino del Quirinale, attraverso l'Avvocatura dello Stato, si era rivolto al procuratore generale di Palermo, Francesco Messineo, intimandogli di confermare o smentire l'esistenza, rivelata da indiscrezioni di stampa, di alcune intercettazioni di Mancino che riguardavano anche la sua persona, e in caso affermativo di distruggerle immediatamente, tantopiù perché giudicate "irrilevanti" ai fini dell'inchiesta dagli stessi magistrati. Il pm Di Matteo, infatti, pur non potendo confermare né smentire l'esistenza e il numero di questi file, aveva dichiarato che non figuravano agli atti e quindi se c'erano erano irrilevanti per l'inchiesta su Mancino e altri politici accusati di falsa testimonianza. Prima di arrivare a questo passo, però, Napolitano aveva mandato avanti i tanti suoi avvocati difensori d'ufficio, i cosiddetti "corazzieri", a preparargli il terreno: insigni giuristi come Onida, Pellegrino, Ainis, De Siervo, Mirabelli, e i giornalisti e gli editorialisti di tutti i principali quotidiani nazionali, con in testa il Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa, compreso nel mazzo il trotzkista ex direttore de il manifesto, Valentino Parlato, schieratosi ostentatamente tra i "corazzieri" a difesa del rinnegato Napolitano. Su tutti primeggiava però per zelo l'ex fondatore ed ex direttore de la Repubblica del magnate De Benedetti, il liberale ex fascista Scalfari, che con un velenoso editoriale e un paio di repliche stizzite bacchettava in punta di diritto i pm palermitani per aver osato intercettare "illegalmente" il presidente della Repubblica: secondo lui anche se ciò fosse avvenuto casualmente mentre intercettavano Mancino, l'intercettazione doveva essere immediatamente interrotta non appena udita la voce del capo dello Stato; e in ogni caso, perché i file in possesso della procura di Palermo non erano ancora stati distrutti? La risposta del procuratore Messineo, confermata anche dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, era che i magistrati palermitani non avevano violato nessuna norma, che il presidente era stato intercettato del tutto casualmente e accidentalmente registrando le telefonate di un indagato per falsa testimonianza (Mancino), registrazioni regolarmente autorizzate dal giudice per le indagini preliminari (Gip), e che nessuna legge li obbligava a distruggerle: solo il Gip, in un'udienza apposita e sentite le parti interessate (accusa e difesa) poteva disporre la loro eventuale distruzione. Anche perché la legge prevede che la stessa difesa di Mancino avrebbe potuto chiederle in seguito ritenendole utili per il suo assistito. Posizioni come si vede ineccepibili e inattaccabili da tutti i punti di vista, cosicché al nuovo Vittorio Emanuele III non è rimasta altra strada, per occultare per sempre il contenuto evidentemente compromettente di quelle registrazioni, che quella pretestuosa e autoritaria del conflitto di attribuzione: la stessa già usata dal neoduce Berlusconi per tentare invano di strappare l'inchiesta per concussione ai giudici di Milano e assegnarla al tribunale dei ministri con la motivazione ridicola che era davvero convinto che Ruby fosse la nipote di Mubarak. L'assedio al Quirinale del privato Mancino Ma cosa c'è, allora, che lo preoccupa tanto in queste telefonate con Mancino? Nessuno lo sa, perché correttamente i magistrati palermitani stanno ben attenti a far circolare la minima indiscrezione. Ma non è difficile immaginarlo, guardando alle telefonate, già comparse sulla stampa, che dal 25 novembre 2011 al 5 aprile 2012, sono state intercettate tra Mancino e il segretario personale di Napolitano, Loris D'Ambrosio. Mancino, che all'epoca della trattativa Stato-mafia era ministro dell'Interno, aveva dichiarato ai giudici palermitani di esserne stato completamente tenuto all'oscuro, nonostante l'ex ministro della Giustizia dell'epoca, Claudio Martelli, sostenesse di averlo informato dei colloqui tra il Ros dei carabinieri e il sindaco di Palermo, intermediario tra Cosa nostra e i politici, Vito Ciancimino. Per questo il pm Di Matteo, sospettandolo di reticenza, aveva chiesto e ottenuto dal Gip palermitano Ricciardi di intercettare le sue telefonate, insieme a quelle dell'ex Guardasigilli Conso, che aveva detto di aver preso di propria iniziativa e "in assoluta solitudine", e non come frutto della trattativa Stato-mafia, la decisione di revocare 334 provvedimenti di carcere duro (il 41 bis) ad altrettanti mafiosi nel '93. Richiesta motivata per impedire che i due "possano entrare in contatto tra loro o con altri soggetti... se non addirittura per concordare tra loro versioni di comodo in vista di imminenti interrogatori". In quelle telefonate con cui tempesta D'Ambrosio, Mancino, che non sa di essere intercettato ma teme fortemente di essere incriminato per falsa testimonianza e perciò vuole evitare il confronto con Martelli davanti ai magistrati palermitani, cerca in tutti i modi di ottenere un intervento del Quirinale per togliere loro l'inchiesta con il pretesto di un "mancato coordinamento" tra le tre procure che se ne occupano, e cioè Palermo, Caltanissetta e Firenze. E D'Ambrosio non solo lo ascolta e lo conforta, ripetendogli di stare tranquillo perché tanto l'inchiesta palermitana "va verso il nulla" e quei giudici "fanno solo confusione", ma gli promette l'interessamento dello stesso Napolitano, di cui si fa intermediario e portavoce con il suo interlocutore, al punto da riferirgli che il presidente gli suggerisce di "parlare" con Martelli, col sottinteso di concordare con lui una versione di comodo. Tant'è che lo stesso Mancino si mostra stupito di tanto ardire, e balbetta: "Ma io non è che posso parlare io con Martelli... che fa"? Più volte D'Ambrosio promette a Mancino che "il presidente se l'è presa a cuore", e che insisterà lui stesso col procuratore Grasso per fargli presente il "mancato coordinamento"; quello stesso Grasso che intanto però, rispondendo a un precedente sollecito, aveva già fatto presente che lui non poteva intervenire in quanto il coordinamento tra le tre procure era già perfettamente assicurato da un protocollo del 28 aprile 2011 e ratificato dal Csm presieduto dallo stesso Napolitano. Ma, secondo D'Ambrosio, Napolitano si sarebbe attivato anche col procuratore generale della Cassazione, Esposito, da cui dipendeva il procuratore antimafia. Richieste indecenti e orecchie compiacenti Possibile che tutto questo interessamento di Napolitano per il privato cittadino Mancino sia del tutto inventato e millantato dal suo segretario solo per usargli una pietosa cortesia? E se così fosse, perché allora Napolitano non lo ha ancora rimosso? Se invece il suo segretario agiva davvero a nome suo, perché, invece di indignarsi per essere stato intercettato, Napolitano non si era semplicemente rifiutato di prestare compiacentemente orecchio alle richieste indecenti di Mancino dicendogli di dire la verità ai giudici, com'era suo dovere, e mettere giù il ricevitore intimandogli di non chiamarlo più? Forse che tra le sue prerogative costituzionali c'è anche quella di aiutare un indagato adoperandosi per ostacolare la giustizia? Sta di fatto che Napolitano almeno in un caso si è mosso esattamente come promesso da D'Ambrosio, quando il 4 aprile 2012 ha fatto mandare davvero dal segretario generale del Quirinale, Marra, una lettera al procuratore generale della Cassazione Esposito in cui fa presente che "il senatore Mancino" (ma non lo è più da tempo) si duole del "mancato coordinamento" tra procure e quindi auspica una "forte iniziativa" per mettervi riparo. Tanto che il successore di Esposito, Ciani, il 19 aprile chiede a Grasso di avocare o "coordinare" meglio l'inchiesta, ma questi si rifiuta adducendo gli stessi motivi già espressi al Quirinale e facendoli mettere anzi a verbale. L'iniziativa di Napolitano è caduta come una mazzata sulla procura di Palermo. In una conferenza stampa subito convocata il capo della procura Messineo, affiancato da tutti i suoi collaboratori, ha ribadito che "mai la procura della Repubblica di Palermo avrebbe attivato una procedura diretta a comprimere o violare le prerogative del capo dello Stato", confermando che per l'eventuale distruzione dei file la legge non prevede un termine, "e di certo siamo di fronte a una procedura non semplice, che prevede un'udienza davanti al Gip". Proprio quello che Napolitano vorrebbe invece evitare, per non far conoscere a chicchessia, neanche alla difesa di Mancino, il contenuto delle registrazioni. "Per la verità non ce l'aspettavamo", ha dichiarato con amarezza in un'intervista al Tg La7 il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, erede di Borsellino, parlando dell'iniziativa di Napolitano. Aggiungendo però che l'importante è ricordare che a 20 anni dalla strage di via D'Amelio "ancora non tutta la verità è venuta a galla e c'è l'impegno della magistratura e ci auguriamo di tutte le componenti dello Stato e della società italiana per conquistare questa verità". Cauta invece la reazione del resto della magistratura. Se quella del procuratore antimafia Grasso è stata quantomeno difensiva, adducendo la "buona fede" dei magistrati palermitani, quella dell'Associazione nazionale magistrati (Anm) è stata addirittura pilatesca, di giustificazione dell'azione del Quirinale che "non è contro i magistrati" e "va ricondotta - secondo il suo presidente Rodolfo Sabelli - a una logica non di contrapposizione o contrasto, ma a una dinamica processuale". Un atteggiamento da struzzo, duramente criticato dal procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, uno dei leader di Magistratura indipendente, che in una e-mail inviata a 500 colleghi siciliani ha accusato l'Anm di aver lasciati soli i magistrati palermitani. La critica più dura ed esplicita all'iniziativa di Napolitano è venuta dai familiari di Borsellino: dalla sorella Rita, parlamentare europea eletta col PD, che ha detto di sentirsi "schiaffeggiata" dal gesto del capo dello Stato, e dal fratello Salvatore, che è tornato a chiedere l'impeachment per Napolitano. In una successiva intervista a Repubblica, la sorella del giudice assassinato ha ribadito che l'iniziativa del Colle nei confronti dei giudici di Palermo "è uno schiaffo a tutto il Paese proprio nel momento in cui la verità ci sembra più vicina", e che fa perdere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Tanto più inaccettabile perché "Paolo è morto proprio per la sua estrema fedeltà a queste istituzioni". Anzi, ha cominciato a morire "quando ha cominciato a capire che le istituzioni in cui credeva erano altro, che lo avevano tradito". Solidarietà ipocrita e nuove bacchettate A livello politico invece, a parte il caso isolato dell'ex pm Di Pietro, che ha attaccato più volte il Quirinale accusandolo di voler interferire con la giustizia, è tutto un coro unanime di osanna, dal PDL al PD, dall'UDC alla Lega, all'iniziativa "sacrosanta" e "opportuna" di Napolitano. Il PDL ha colto anzi la palla al balzo per tornare a chiedere al più presto la legge bavaglio contro le intercettazioni, cosa che la ministra della Giustizia, Paola Severino, si sta affrettando a mettere a punto per presentarla appena possibile, giusto quando le acque si saranno un po' calmate per non destare il sospetto di una legge ad personam per Napolitano. Da parte sua quest'ultimo, anche nel messaggio inviato ai magistrati alla commemorazione del 20° della strage di via D'Amelio al palazzo di giustizia di Palermo, in cui assicurava ipocritamente che "si sta lavorando, si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage", e in cui citava ostentatamente la moglie e i figli di Borsellino ma non i suoi due fratelli, è tornato a ribadire arrogantemente, quasi in tono di sfida ai "Signori Magistrati di Palermo", che se "non c'è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell'accertamento dei fatti e delle responsabilità", è anche vero che "proprio a tal fine è importante scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione". E che spetta proprio a lui "vegliare" su questo "come in questi anni ha sempre fatto, con linearità, imparzialità, severità". Un'altra bacchettata ai magistrati antimafia siciliani che ha lasciato "sconcertato" Salvatore Borsellino, che ha guidato il corteo delle "agende rosse" in via D'Amelio, il quale ha rimarcato invece che esse sono venute da tutta Italia "per esprimere sostegno ai magistrati vivi che come Paolo vent'anni fa sono sottoposti agli stessi attacchi delegittimanti". Napolitano dovrebbe dimettersi. 25 luglio 2012 |