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Dopo aver bruciato Prodi, per uscire dallo stallo istituzionale e governativo
Il PD si riallea col PDL ed eleggono insieme al Quirinale il golpista e presidenzialista Napolitano
Il principale partito della "sinistra" borghese in frantumi. Bersani e Bindi si dimettono. Il neoduce Berlusconi segna un punto a suo favore. M5S e SEL manovrano per salvare il capitalismo e le sue istituzioni dal dissenso e dalla furia delle masse di sinistra. Rodotà, un giurista della "sinistra" borghese e sostenitore della Costituzione e delle istituzioni borghesi, votato da M5S e da Sel, si smarca dalla "marcia su Roma" di Grillo
Solo il socialismo può cambiare l'italia e dare il potere al proletariato |
Il pomeriggio del 20 aprile, alla sesta votazione, il rinnegato Giorgio Napolitano è stato eletto per la seconda volta capo dello Stato con i voti di PD, PDL, Lega e Scelta civica, al termine di una settimana convulsa che ha visto il partito guidato da Bersani andare in pezzi sotto i colpi delle faide e dei regolamenti di conti tra le sue correnti interne, dopo aver bruciato uno dietro l'altro due dei suoi stessi candidati, già fondatori del partito, come Franco Marini e Romano Prodi. Tanto che subito dopo la votazione Bersani si è dimesso dalla segreteria, subito seguito dalla presidente Rosy Bindi, e poco dopo anche dall'intera segreteria del partito.
Con la rielezione di Napolitano, già da prima auspicata e tempestivamente riproposta da Berlusconi nel momento in cui il PD era ormai ingovernabile, paralizzato dai veti incrociati interni e incapace di esprimere un altro candidato, si sblocca la strada al "governo delle larghe intese" tra PD, PDL-Lega e Monti, invocato subito dopo le elezioni dal neoduce e sempre appoggiato dal nuovo Vittorio Emanuele III, che fin dall'inizio delle consultazioni ha fatto capire in tutti i modi possibili di non tollerare altre soluzioni che questa. Anche a costo di provocare, come poi è successo, l'implosione del PD, dilaniato da una selvaggia guerra per bande all'interno e assediato all'esterno dalla rabbia e dalle proteste della sua base e dei suoi elettori, sollevatisi in tutto il Paese contro la consumazione sotto i loro occhi del vergognoso inciucio con Berlusconi.
Il secondo mandato a Napolitano, che non ha precedenti nella storia della Repubblica, e conferitogli dai principali partiti della destra e della "sinistra" borghesi che siedono nel parlamento nero quasi come ad un "salvatore della patria", e che egli ha accettato dopo che aveva spergiurato per settimane che non lo avrebbe mai fatto per nessuna ragione al mondo, rappresenta un ennesimo golpe istituzionale, il più grave dei tanti commessi da questo presidenzialista incallito, i cui poteri reali vanno ormai ben oltre quelli assegnatigli dalla Costituzione del 1948, e che si comporta come se fossimo già in una repubblica presidenziale a tutti gli effetti.
Non a caso, nell'accettare la proposta unanime di Bersani, Berlusconi, Maroni e Monti di candidarsi per il nuovo mandato, come "assunzione di responsabilità verso la nazione", egli ha posto come precisa condizione "che vi corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità". Che cioè questi partiti si devono rimettere totalmente a lui e senza ammettere discussioni sulla formazione del governo: il "governo del presidente"! Del quale si ventila che sarà guidato da un premier di area PD (forse Amato o Enrico Letta), ma con un vicepremier del PDL (probabilmente Alfano, che Berlusconi vorrebbe anche come ministro della Giustizia), e con Monti o D'Alema agli Esteri. Ma che di sicuro avrà come programma quello già definito dalla commissione dei dieci "saggi" da lui insediata, che ha al centro la controriforma della Costituzione e della giustizia, compresa la legge bavaglio alle intercettazioni tanto cara al neoduce di Arcore.
Quest'ultimo esce da questa vicenda segnando nettamente un punto a suo favore, visto che ci era entrato come potenziale perdente, se il PD avesse fatto asse con il M5S per imporre un presidente a lui ostile, mentre invece ne è uscito col nuovo Vittorio Emanuele III ancora al Quirinale, che lo ha sempre coperto politicamente e protetto dalle azioni della magistratura, e con la distruzione del PD, che lo rilancia nel gioco politico da protagonista e gli riapre la strada per Palazzo Chigi. E perfino per il Quirinale, sia nel caso che Napolitano decida di lasciare la carica anzitempo, sia che il parlamento nero approvi l'elezione diretta del presidente della Repubblica ormai invocata apertamente anche dalla maggioranza della "sinistra" borghese.
Marini impallinato dalla rivolta anti inciucio
Ma come si è arrivati a questo epilogo già scritto della vicenda Quirinale? Fin da quando è iniziata, nonostante Bersani continuasse a ripetere a parole di volere ancora un "governo del cambiamento", e che mai e poi mai avrebbe barattato la presidenza della Repubblica con un "governissimo" con Berlusconi, è apparso chiaro che in realtà è proprio in questa direzione che lui e la maggioranza del PD stavano marciando a rotta di collo. Non solo perché non aveva neanche risposto alle aperture di Grillo di una possibile collaborazione governativa se avesse accettato di discutere di una convergenza su Rodotà, e perfino, in ultima istanza, su Prodi; non solo perché il nome di Prodi, il più inviso al neoduce, non era nemmeno stato incluso nella rosa di candidati del PD; ma anche perché i petali di questa rosa si chiamavano Amato, Marini, D'Alema, Finocchiaro, Violante: tutti guarda caso inciucisti incalliti e graditi a Berlusconi.
E infatti è a quest'ultimo, in un incontro segreto come tra due boss mafiosi, alla vigilia delle votazioni in aula, che Bersani ha lasciato la scelta finale, che è caduta su Marini, con l'accordo che sarebbe stato votato in comune per farlo passare al primo turno con la maggioranza dei due terzi. Ed è il nome dell'ex sindacalista democristiano ("che è sempre stato nostro amico", come ha detto Berlusconi ai suoi per spiegare la scelta), che Bersani era andato subito a proporre come candidato "a sorpresa" all'assemblea dei gruppi parlamentari del "centro-sinistra" al cinema Capranica. Ma la proposta sollevava un'ondata di dissenso e di interventi contrari, tanto che doveva essere messa ai voti e imposta a maggioranza, mentre fuori dal Capranica, transennato dalla polizia, una folla di militanti ed elettori del PD, allertati via Internet, manifestavano al grido di "traditori" e qualcuno bruciava addirittura la propria tessera, mentre le caselle e-mail dei parlamentari PD venivano intasate dai messaggi di protesta, e sui social network e sui blog si scatenavano le proteste contro quella scelta scellerata percepita come un chiaro segnale di inciucio imminente con Berlusconi.
Ciononostante, il 18 aprile, Bersani e la maggioranza dei capibastone del partito tiravano dritto, andando alla prima votazione in aula su Marini, che però non riusciva a raggiungere il quorum, ed era sonoramente bocciato. Mancavano all'appello ben 200 voti del PD, più quelli di SEL che aveva annunciato di votare per il candidato del M5S Rodotà, un famoso giurista della "sinistra" borghese. Per di più Bersani veniva fotografato mentre abbracciava in aula il tirapiedi di Berlusconi, Alfano; foto che faceva subito il giro del Web facendo infuriare ancor di più la base del suo partito.
Prodi bruciato sull'altare delle "larghe intese"
La ignominiosa bocciatura di Marini faceva così emergere una profonda spaccatura nel PD, insieme all'isolamento del suo vertice dalla base e dagli elettori, e ciò gettava nel panico la segreteria di Bersani, che a quel punto, con un clamoroso testa-coda, nel tentativo di ricompattare il partito ed evitare un'altra umiliante sconfitta, la mattina del 19 aprile proponeva la candidatura di Prodi per la quarta votazione (dalla quale in poi vale la semplice maggioranza assoluta). Candidatura che veniva approvata all'unanimità per acclamazione dall'intera assemblea dei grandi elettori di PD e SEL. Anche Renzi, che aveva rifiutato apertamente la candidatura di Marini, si era espresso, a parole, a favore di Prodi.
La candidatura di Prodi era accolta come un segnale di guerra dal PDL, che decideva di uscire dall'aula per protesta durante la votazione, e anche Monti si sfilava, perché giudicata una candidatura "divisiva" nei confronti del PDL e delle "larghe intese". Ma nel pomeriggio di quella stessa giornata, poche ore dopo che era stato acclamato all'unanimità, anche Prodi veniva impallinato nel segreto dell'urna da un centinaio di franchi tiratori dello stesso PD. Da chi? I più sospettati, oltre agli ex popolari come vendetta per la bocciatura di Marini, erano i seguaci di D'Alema, le cui ambizioni di salire al Quirinale erano frustrate per la seconda volta, e che da anni covava vecchi rancori con il cofondatore del PD. Perfino i renziani venivano sospettati di aver voluto accelerare con ciò la "rottamazione" della vecchia classe dirigente.
Quel che è certo è che chi ha voluto bruciare in questo modo mafioso e umiliante l'ex leader liberista dell'Ulivo voleva riaprire la strada all'inciucio con Berlusconi e alle "larghe intese", obiettivo che è stato sempre nelle intenzioni palesi o segrete della maggioranza del vertice PD fin dall'indomani delle elezioni del 24 febbraio. Quella sera, mentre Bersani annunciava le sue dimissioni in assemblea, seguito a ruota dalla Bindi, accusando uno su quattro di essere dei traditori, un Berlusconi raggiante per lo scampato pericolo brindava con i suoi a Palazzo Grazioli, esultando: "Volevano farmi fuori e si sono fatti fuori da soli".
Il giorno dopo, di fronte alla disfatta sua e dell'intero gruppo dirigente di un PD ormai in frantumi, Bersani ha compiuto l'ultimo misfatto, arrendendosi di nuovo al neoduce Berlusconi ed eleggendo insieme a lui, a Monti e a Maroni, il rinnegato Napolitano al Quirinale dopo averlo supplicato di accettare un secondo mandato. Piangendo poi lacrime di sconfitta in aula mentre il neoduce si pavoneggiava applaudito dai suoi come il vero vincitore della partita.
E tutto ciò mentre davanti alla Camera assediata fino a tarda sera, e blindata dalla polizia in assetto antisommossa, una folla di migliaia di militanti ed elettori di M5S, di PD, di Rifondazione, di giovani dei Centri sociali, manifestavano indignati al grido di "vergogna, vergogna"; fioccavano le contestazioni ai parlamentari che uscivano dal palazzo, tra cui quelle a Grasso e Boldrini e quella a Franceschini beccato mentre era a mangiare in trattoria; e si moltiplicavano le notizie di circoli e federazioni del PD in tutta Italia, da Torino a Palermo, occupate per protesta dai militanti di base.
Grillo e Vendola coprono il golpe e frenano la piazza
Nel pomeriggio Grillo scriveva sul suo blog che era "in atto un colpo di Stato. Sarò a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni". Ma Rodotà, che in quel momento era a un convegno a Bari, da sempre apologeta delle istituzioni e della Costituzione borghesi e capitalistiche, e pressato anche dalle telefonate del PD che gli chiedevano di dissociarsi, gettava acqua sul fuoco dichiarando che l'elezione di Napolitano aveva piena "legittimità democratica e costituzionale", e che lui era "sempre stato contrario alle marce su Roma".
Anche Vendola smentiva recisamente che si trattava di un golpe, invitando Grillo a "pesare le parole, perché l'enfasi propagandistica rischia di introdurre veleno nella lotta politica". Dopodiché, facendo capire di essere stato "consigliato" anche dalla Digos, lo stesso Grillo ha fatto marcia indietro, rimandando all'indomani il viaggio a Roma e derubricando il golpe ad un "golpettino istituzionale furbetto", in una dichiarazione stampa in cui ha aggiunto: "Sto calmando gli animi, dovreste ringraziarci perché manteniamo la calma, teniamo la democrazia in questo posto".
Grillo e Vendola, dunque, si adoprano per salvare il capitalismo e le sue istituzioni dal dissenso e dalla furia delle masse di sinistra. Contando anche di lucrare sui voti degli elettori del PD delusi e schifati dalla dimostrazione lampante della vocazione all'inciucio, agli intrighi e all'attaccamento alla poltrona dell'infingardo e fallimentare vertice del partito.
Vendola e Barca, da una parte, e il berluschino presidenzialista Renzi, dall'altra, mirano inoltre a spartirsi le spoglie di questo partito ormai in via di liquidazione: i primi quelle della "sinistra", e il secondo quelle del centro e della destra. Vendola proponendo già un'assemblea "aperta a tutti" per "ricostruire dalle fondamenta una sinistra di governo": cioè un nuovo inganno per intrappolare gli anticapitalisti nel parlamentarismo e nell'elettoralismo sul modello del "cantiere della sinistra" bertinottiano. Renzi, in un'intervista a La Repubblica, che ha già archiviato Bersani per puntare su di lui, proponendosi come nuovo leader del PD, magari in sodalizio segreto con D'Alema, e invocando l'elezione diretta del "sindaco d'Italia", ossia la repubblica presidenziale.
Questa disgustosa vicenda mostra in maniera eclatante l'estrema difficoltà della classe dominante borghese, dilaniata dalla guerra per bande tra le varie cosche in cui è frantumata, ad uscire dalla crisi in cui si dibatte e dare una stabilità al sistema capitalista e alle sue istituzioni neofasciste. Ma dimostra anche che ogni suo tentativo di uscirne non può che essere da destra, verso un governo ancor più reazionario e antipopolare, verso un'ulteriore torchiatura e impoverimento dei lavoratori e delle masse popolari e verso l'ufficializzazione del presidenzialismo neofascista. Perdurando il sistema capitalistico, è impossibile cambiare l'Italia da sinistra, non potrebbe farlo nemmeno Stefano Rodotà che è parte integrante del capitalismo e delle sue istituzioni.
Perciò è quantomai necessario e urgente abbandonare ogni illusione parlamentare, elettorale, costituzionale, riformista e governista, lasciare la imbelle, corrotta e fallimentare "sinistra" borghese al suo squallido destino, e combattere invece con il PMLI contro il capitalismo, le sue istituzioni, il suo governo e il regime neofascista imperante, accumulando le forze per la rivoluzione socialista. Solo così sarà possibile cambiare davvero l'Italia e dare il potere al proletariato.
23 aprile 2013
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