Nazionalizzare l'Ilva senza indennizzi. I Riva devono pagare i danni dell'inquinamento di Taranto e della bonifica dell'azienda Nessun governo centrale e pugliese, dal 1995 a oggi, può sottrarsi dalle responsabilità politiche dell'inquinamento causato dallo stabilimento siderurgico A diciasette anni dalla privatizzazione "suggerita" dall'ex presidente dell'Iri Romano Prodi e portata a termine dai governi di "centro-sinistra" Dini e D'Alema, che svendettero per quattro lire il più grosso centro siderurgico europeo ai padroni della famiglia Riva, l'Ilva di Taranto è stata ridotta in una autentica bomba ecologica e sociale che rischia di lasciare sul selciato altre migliaia di morti e oltre 20 mila lavoratori disoccupati. Uno scenario apocalittico che è conseguenza diretta del bestiale sfruttamento capitalista a cui sono sottoposti i lavoratori e dell'intollerabile ricatto occupazionale esercitato dai vertici dell'azienda nel corso degli anni su tutta la polazione costretta a scegliere se morire di fame o di tumore respirando, bevendo e mangiando i veleni prodotti dalla fabbrica. Ma anche e soprattutto per precise e criminali responsabilità politiche che, come dimostrano le indagini giudiziarie ancora in corso, coinvolgono i massimi vertici dei governi nazionale, regionale, provinciale e comunale che si sono succeduti dal 1995 ad oggi ivi compreso il governo del tecnocrate liberista Monti che, con l'avallo di Napolitano, e tramite i suoi ministri (della Salute e dell'Ambiente Balduzzi e Clini), ha cercato in tutti i modi di insabbiare le indagini e di tutelare solo gli sporchi interessi dei Riva e non certo della popolazione e dei lavoratori. Un decreto criminogeno L'ultimo atto di questa infame campagna si è consumato il 30 novembre con il varo del criminogeno decreto legge recante "disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale". Il decreto, subito controfirmato da Napolitano, di fatto esautora l'autorità e l'indipendenza della magistratura sottoponendo il potere giudiziario al potere legislativo proprio come prevedeva il "Piano" della P2 di Gelli e, al contrario di quanto disposto dal tribunale di Taranto, prevede che il ministro dell'Ambiente "può autorizzare, in sede di riesame dell'autorizzazione integrata ambientale, la prosecuzione dell'attività produttiva per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi". Un decreto che non a caso Gianfranco Amendola, procuratore della Repubblica a Civitavecchia, in una intervista a il Fattoquotidiano del 2 dicembre definisce: "chiaramente in contrasto con la nostra Costituzione come qualsiasi persona di media intelligenza può desumere. È un provvedimento legislativo che, semplicemente, assoggetta l'ambiente alla produzione e premia il profitto rispetto alla salute. In realtà, è un decreto criminogeno perché avalla una situazione in cui può causare dei morti. E nessun governo può arrogarsi questa prerogativa. Nel provvedimento di sequestro da parte dei giudici, dello scorso luglio, c'è scritto chiaramente che 'non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell'Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico'". E fino ad oggi, ha aggiunto Amendola: "nessuno ha mai detto che la magistratura ha sbagliato. Quindi, delle due l'una: o la magistratura ha sbagliato oppure se ha detto il giusto deve veder rispettate le sue determinazioni. Non può essere fatto passare nessun giorno in più senza mettere in sicurezza gli impianti. Nessuno può permettere di consentire che qualcuno muoia. È la sentenza 5172 del 1979 della Corte di Cassazione a Sezioni unite - quindi il massimo grado di giudizio - a stabilire che 'l'Amministrazione non ha il potere di rendere l'ambiente insalubre neppure in vista di motivi di interesse pubblico di particolare rilevanza'". Giudizio condiviso anche da Maurizio Carbone, segretario dell'Anm e pubblico ministero a Taranto, secondo cui il decreto: "desta più di qualche perplessità oltre ad essere una forte assunzione di responsabilità da parte del governo nel momento in cui ritiene di superare i provvedimenti giudiziari e la situazione di pericolo esistente attraverso l'intervento normativo... vanifica gli effetti di provvedimenti cautelari sui quali era già intervenuto un giudicato cautelare nel senso che il sequestro preventivo di luglio è stato giudicato dal riesame e verso il provvedimento del riesame non è stato, da parte dell'Ilva, sollevato il ricorso in Cassazione". Perciò, ammonisce Carbone: "verranno verificati nelle sedi opportune gli eventuali rimedi e la possibilità di sollevare conflitti di attribuzione o eccezioni di incostituzionalità laddove dovessero essercene i profili". Le responsabilità Ma il veleno dell'Ilva, come sostengono i magistrati, ha intaccato tutto il tessuto politico e sociale e, oltre al governo dei "tecnici" coinvolge in pieno sia la destra che la "sinistra" borghese che si sono succedute alla guida del Paese negli ultimi 20 anni. Basti pensare ai lauti "finanziamenti elettorali" di ben 245mila euro per Forza Italia e 98mila euro a Bersani, allora deputato dei DS, poi ministro dell'Industria e oggi leader del PD, elargiti tra il 2006 e il 2007 dal gruppo Riva, guidato dal padrone Emilio, per calcolo a seconda di quale ministro della destra o della "sinistra" borghese sedeva sullo scranno che più interessava il settore della siderurgia, ossia quello dello sviluppo economico, ricoperto dal maggio 2006 al maggio 2008 proprio da Bersani, su incarico del governo Prodi. Una sorta di tangente in cambio di protezione politica e condizionata al fatto che Palazzo Chigi chiudesse entrambi gli occhi sul disastro ambientale a Taranto. Insomma, un criminale intreccio politico ed economico grazie al quale i Riva riuscivano a garantirsi lauti profitti tutti sulla pelle dei lavoratori, della popolazione e del territorio, con la piena complicità anche dei governi locali a cominciare dalla giunta regionale dell'imbroglione trotzkista Vendola il quale, pur essendo perfettamente al corrente di ciò che avveniva dentro e fuori lo stabilimento, non ha osato muovere un dito dal 2005 ad oggi contro i vertici aziendali che anzi hanno goduto della copertura sua e dei suoi uomini finiti in galera o indagati insieme ai vertici dell'Ilva. Esattamente come l'altro boss di Napoli, Bassolino, anche Vendola a parole ha sempre detto di voler difendere la popolazione ma nei fatti, come dimostrano le indagini, gli arresti e gli indagati di queste ultime ore, dietro le quinte muoveva le sue pedine e i suoi uomini per garantire i Riva e i loro sporchi profitti e interessi e non certo i lavoratori e la popolazione. Tant'è vero che non è stata né l'Asl né l'Agenzia regionale per l'ambiente (Arpa), ma la magistratura a portare alla luce il verminaio Ilva. Le indagini Un criminale intreccio politico ed economico che è venuto alla luce a partire dalla fine di luglio grazie alla coraggiosa inchiesta condotta dal Giudice per le indagini preliminari (Gip), Patrizia Todisco che, a conclusione di un'inchiesta durata due anni e mezzo e firmata dal procuratore Franco Sebastio, ha disposto il 26 luglio il sequestro senza licenza d'uso di sei reparti dell'area a caldo delle acciaierie Ilva di Taranto, parchi minerali, cokerie, agglomerato, altiforni, acciaierie e rottami ferrosi. Il 22 novembre il Gip dispone anche il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e ordina l'arresto di 8 dirigenti Ilva, tra cui Emilio Riva, i due figli Nicola e Fabio, il direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso, l'addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà e il professor Lorenzo Liberti. Nell'ordinanza di arresto il Gip mette in luce l'inquietante rete di relazioni tra i vertici dell'azienda e i boss politici locali. Dalle pressioni di Vendola, al ruolo del presidente PD della Provincia di Taranto Gianni Florido (vendoliano, ex segretario regionale della Cisl ), dalle telefonate ai parlamentari Vico e Franzoso all'email (non si sa se mai effettivamente recapitata) di Emilio Riva al segretario del PD Pier Luigi Bersani. "Nel corso delle indagini - scrive fra l'altro il Gip nell'ordinanaza - sono stati rilevati numerosi e costanti contatti di Archinà, direttamente, e di Fabio Riva, indirettamente, con vari esponenti politici, tra i quali il presidente della Provincia di Taranto e il governatore della Puglia Nichi Vendola. Tali rapporti non sempre rivestono carattere di tipo istituzionale, talvolta, infatti, si sostanziano anche in incontri privati senza alcun carattere di ufficialità". A parere del Gip la "testa di ponte" dell'Ilva alla provincia di Taranto sarebbe stato in un primo momento l'assessore all'Ambiente Michele Conserva, finito ai domiciliari e dimessosi lo scorso settembre. Ma nel 2010 qualcosa cambia. Scrive il Gip: "Per ridimensionare la propria posizione nell'ambito delle indagini" Conserva decide "di osteggiare l'Ilva". Tanto che in un dialogo tra due collaboratori di Conserva uno di loro dice che "l'assessore non risponde più al telefono, nemmeno quando l'interlocutore è Archinà". A questo punto, scrive il Gip, Archinà chiede, e ottiene, di incontrare direttamente il presidente Gianni Florido. Archinà si lamenta in particolare dell'esistenza di un comitato tecnico che si sarebbe dovuto esprimere in merito alla concessione di un'autorizzazione sulla discarica dell'Ilva. Ma le conoscenze di Archinà non si fermano a Taranto o alla Provincia. Scrive ancora il Gip: "I contatti dell'Archinà con gli organi politico-istituzionali, in relazione alle questioni afferenti l'Ilva, non erano circoscritti alla sola realtà locale ma afferivano anche a quella regionale, tant'è che il predetto faceva continuamente la spola tra Taranto e Bari ove aveva numerosi incontri con personaggi di spicco del consesso regionale, sia politici che dirigenti di importanti strutture. In particolare nell'assessorato all'ambiente cerca come referenti i dirigenti Antonello Antonicelli e Gennaro Russo e il consulente Vito Balice, presso la sede dell'Arpa regionale dove aveva costanti rapporti con il dirigente prof. Giorgio Assennato, presso la sede della regione Puglia dove aveva incontri con l'avvocato Manna, capo della segreteria del presidente Vendola". La nostra posizione Di fronte a tutto ciò, noi riaffermiamo che l'unica strada in grado di salvaguardare insieme e contestualmente salute, ambiente e lavoro è la nazionalizzazione dell'Ilva senza indennizzi per i pescecani Riva, che anzi devono pagare tutti i costi inerenti i danni dell'inquinamento a Taranto e della bonifica dello stabilimento: e se non lo faranno tempestivamente devono rispondere con tutti i loro patrimoni da confiscare per via giudiziaria. Solo con la nazionalizzazione dell'Ilva si può e si deve porre sotto il diretto controllo dei lavoratori e della popolazione tarantina l'intero ciclo produttivo affinché siano prioritariamente garantiti e tutelati i diritti e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti dei quartieri circostanti. Un piano complessivo che tuteli salute, lavoro e ambiente e impedisca la smobilitazione di questo settore strategico per il nostro Paese che non può tornare indietro come ai tempi del vecchio siderurgico Italsider, che certamente non era così inquinante come lo è diventato oggi, ma che comunque non aveva gli standard di sicurezza e tutela ambientale pretesi oggi giustamente e in modo combattivo dai lavoratori e dalle masse popolari tarantine. 5 dicembre 2012 |