Quale credibilità per la lotta alla mafia? Il nuovo capo della polizia aiutò Cuffaro A marzo Manganelli lodava il governatore siciliano per l'impegno antimafia in contrasto con le indagini della procura di Palermo "Antonio Manganelli è l'uomo giusto al posto giusto... Per la Sicilia e i siciliani la nomina di Manganelli (a capo della Polizia al posto di De Gennaro, ndr) è l'ulteriore garanzia della volontà di perseguire ancora e sempre quel cancro che è la mafia". A dare questa patente di integerrimo uomo "antimafia" è nientemenoché il governatore della Regione Sicilia e il vicepresidente nazionale dell'Udc, Totò Cuffaro, sotto inchiesta per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra e di rivelazione di segreto nell'ambito del processo sulle "talpe" nella Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Palermo a cui si è aggiunta ora una nuova inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Già questo basterebbe per bruciare la credibilità di Manganelli riguardo alla lotta alla criminalità organizzata. Ma c'è dell'altro. E riguarda un altro episodio noto tra uffici della Procura di Palermo e tra chi si batte contro la mafia e la criminalità organizzata. È il 13 marzo scorso e nell'aula bunker di Palermo è in corso il processo sulle "talpe" nella Dda dove Cuffaro è indagato per rivelazione di segreti d'ufficio. Il suo legale convoca una serie di testi "pesanti" che dovrebbero scagionarlo dalle accuse e dimostrare che avrebbe sempre fatto tutto ciò che era in suo potere per combattere la mafia e portare in Sicilia la cultura della legalità (quale legalità?). Tra costoro ci sono lo stesso De Gennaro, addirittura l'ex ministro degli Interni Pisanu e, appunto, Manganelli allora vice capo della Polizia. Alla difesa sarebbe bastato che il vice di De Gennaro citasse il protocollo della legalità firmato nel 2003 e con esso l'impegno, assai presunto aggiungiamo noi, di Cuffaro nella lotta alla criminalità organizzata. Invece la sua deposizione si trasforma in un vero e proprio panegirico che nessun esponente della politica locale e nazionale è mai riuscito a meritare. "Nell'ambito del partenariato che l'amministrazione dell'Interno ha istitutio con gli enti locali - dice Manganelli -, la regione Sicilia e il suo presidente Salvatore Cuffaro sono quelli che hanno meglio interpretato questo spirito di collaborazione". Parole che fanno saltare sulla sedia alcuni magistrati della procura di Palermo e che confliggono con quanto emerge dalle loro indagini. Tant'è che non passa neppure una settimana e il 19 marzo il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo subentrato a Pietro Grasso, annuncia che la procura chiederà di aprire nuove ingagini su Cuffaro per concorso esterno in associazione mafiosa, reato che la Procura di Grasso aveva invece archiviato. C'è pure una conferenza stampa a cui, per una volta, i pm della Dda si presentano con una posizione unanime. Nessuno cita le dichiarazioni di Manganelli ma non è difficile mettere in contrapposizione le parole dell'alto funzionario di Ps e le decisioni intraprese dal procuratore Messineo e dagli aggiunti Giuseppe Pignatore e Alfredo Morvillo. Decisioni che peraltro vengono accolte e controfirmate dal gip Licata il 24 maggio scorso. Insomma se gli elogi tra chi dovrebbe combattere la mafia (Manganelli) e chi è sotto inchiesta per reati mafiosi (Cuffaro) si sprecano, vorrà pur dire qualcosa? Nonostante tutto sulla scelta del nuovo capo della Polizia c'è stata una vera e propria "standing ovation" che ha contagiato la maggioranza di Prodi e la casa del fascio di Berlusconi. Una pioggia di elogi a cui non si è sottratta neppure la cosiddetta "sinistra radicale" che a parte la questione suddetta, ha derubricato vergognosamente anche le responsabilità di Manganelli sulla "macelleria messicana" alla scuola Diaz e sugli altri abusi commessi nel luglio 2001 nelle strade, nelle caserme, nelle carceri durante il G8 a Genova. Addirittura il presidente dei senatori del PRC, Russo Spena lo assolve con formula piena affermando che "in quei giorni era in Puglia. Pertanto non ha nessuna responsabilità per quello che accadde", dimenticando opportunisticamente che l'alto dirigente, pur non essendo presente, fu in costante contatto con i dirigenti imputati per la Diaz, come lui stesso riconobbe quando fu chiamato in tribunale come testimone, e dunque anch'egli oggettivamente responsabile per la disastrosa gestione del G8 e per l'inaccettabile comportamento tenuto dalla polizia nei sei anni successi. 11 luglio 2007 |