Lo ha chiesto Abu Mazen all'Assemblea generale Arriva all'Onu la richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina Il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha consegnato il 23 settembre nelle mani del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, la richiesta ufficiale di adesione all'Onu del futuro stato di Palestina. In caso di rifiuto da parte del Consiglio di sicurezza potrebbe girare la richiesta all'Assemblea Generale affinché elevi lo status della delegazione palestinese a Stato "osservatore", dall'attuale semplice osservatore permanente, attribuito a organizzazioni come la Croce Rossa. La decisione del Consiglio Onu è attesa per la prima metà di ottobre ma la bocciatura è scontata dopo la dichiarata opposizione degli Usa di Obama, che stanno cercando alleati per respingere la domanda e non essere costretti a mettere il veto. Il passaggio in Assemblea generale è invece garantito dal parere favorevole di una larga maggioranza di paesi. Da ricordare che l'Assemblea generale ha già riconosciuto lo Stato palestinese dichiarato da Arafat, nel 1988, con 104 voti favorevoli, due contrari e 36 astenuti. Nell'intervento in assemblea Abu Mazen ha illustrato la richiesta formale di un riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite entro i confini del 1967 e con capitale Gerusalemme. Ha sottolineato che "siamo l'ultimo popolo sotto occupazione straniera, questa richiesta non può essere respinta", ha denunciato che "Israele continua la sua campagna demolitrice e la sua pulizia etnica verso i palestinesi", e che "lo stato ebraico minaccia i nostri luoghi sacri. Gli insediamenti minacciano l'esistenza stessa dell'Anp. Questa politica israeliana provoca lo stop del processo di pace e distrugge le possibilità di arrivare alla soluzione 'due popoli due Stati', sulla quale c'è il consenso della comunità internazionale". E che è la trappola per negare i diritti dei palestinesi, che invece verrebbero tutelati con la formula di un solo Stato. ''È giunto il nostro tempo - ha affermato il presidente palestinese - dopo i popoli arabi, anche i palestinesi hanno diritto alla loro primavera. Sono qui a nome del mio popolo, che chiede solo di esercitare il diritto a una vita normale''. E ha concluso sottolineando che "siamo pronti a tornare al tavolo del negoziato sulla base della legalità internazionale e della fine dell'attività degli insediamenti". In successive interviste è tornato sull'argomento: l'ho detto al presidente Obama, l'ho ripetuto nell'intervento all'Assemblea Generale, lo ribadisco ora sono pronto a riaprire da subito il negoziato diretto ma su basi chiari, su contenuti concreti; i palestinesi non possono negoziare qualsiasi proposta che non sia basata su confini del 1967 (con qualche modifica, ndr) e non garantire un congelamento degli insediamenti in Cisgiordania". Tornare al negoziato è il suo vero obiettivo. Per questo ha ripreso la proposta lanciata da Obama nel maggio scorso, quando il presidente americano aveva sostenuto che il futuro stato palestinese avrebbe dovuto basarsi sui confini del '67, come stabilito dalle risoluzioni Onu 242 e 338, e aveva parlato di "scambi di territori in accordo fra le due parti". La proposta di Obama era stata bocciata dal premier sionista Benjamin Netanyahu, che all'Onu ha ripetuto il suo No. "È tempo che i palestinesi riconoscano Israele come lo Stato ebraico. Viene prima la pace con noi, poi lo Stato palestinese", ha dichiarato dalla tribuna dell'assemblea generale, intervenendo poco dopo il presidente palestinese. Una posizione arrogante che rende ridicola anche la nuova proposta del Quartetto dei mediatori per il Medio Oriente (Onu, Ue, Russia ed Usa) che ha definito un nuovo percorso per far ripartire i negoziati tra israeliani e palestinesi con la richiesta dell'impegno a "entrambe le parti per raggiungere un accordo entro un arco temporale che non vada oltre la fine del 2012". Una proposta che allunga di ancora un anno la scadenza del fantomatico negoziato rilanciato da Obama dalla stessa tribuna dell'Onu lo scorso anno. Il presidente americano ha insistito di nuovo: "sono convinto - ha sostenuto nell'intervento del 21 settembre - che non esistano scorciatoie per la fine di un conflitto che è durato per decenni. La pace non arriverà tramite le dichiarazioni e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Sono gli israeliani e i palestinesi, non noi, a dover raggiungere un accordo sulle questioni che li dividono: sui confini e sulla sicurezza, sui rifugiati e su Gerusalemme". Era la spiegazione del No degli Usa ala richiesta dell'Anp. Ma Obama non si è limitato a questo, ha voluto anche ribadire il forte sostegno della sua amministrazione ai sionisti israeliani. "L'impegno americano per la sicurezza di Israele è inamovibile", aggiungeva Obama ricordando che "la nostra amicizia con Israele è profonda e duratura" e che Israele merita "riconoscimento e relazioni normali con i propri vicini". Perché "parliamoci chiaro, Israele è circondata da vicini che le hanno mosso guerra più volte, questa è la realtà". Un atto di fede che gli avrà, forse, garantito l'appoggio della lobby ebraica alla sua rielezione. La proposta di Abu Mazen non trova del tutto concordi altre formazioni palestinesi, da Hamas alla Jihad che non erano state consultate. Il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoun, ha sottolineato che il presidente dell'Anp "ha parlato delle sofferenze del popolo palestinese, dell'assedio a Gaza, ma la soluzione proposta non è all'altezza delle aspettative del popolo palestinese, soprattutto perché prevede il ritorno ai negoziati. E la cosa più grave del suo intervento è il riconoscimento dello Stato di Israele, mentre vuole uno Stato che comprenderebbe solo il 22 percento della Palestina storica''. Sono negati per Hamas il diritto alla resistenza e all'autodeterminazione, nonché il diritto al ritorno dei profughi palestinesi costretti a lasciare le loro case nel 1948, a causa dall'occupazione israeliana. Anche il Movimento giovanile palestinese (Pym), in una nota diffusa il 20 settembre, si era detto contrario al riconoscimento dello stato di Palestina entro i confini del 1967 perché "rimuove la questione dal suo contesto storico: il regime coloniale israeliano. La proposta normalizza il regime e compromette i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in esilio e di quelli residenti nei territori occupati nel 1948. Li spinge a limitare le rivendicazioni dentro un quadro neocoloniale". Inoltre "non affronta le questioni fondamentali: Gerusalemme, le colonie, i rifugiati, i prigionieri politici, l'occupazione, le frontiere e il controllo delle risorse", affidate ai negoziati. 28 settembre 2011 |