Davanti a Palazzo Chigi La polizia di Berlusconi e Maroni manganella gli operai sardi dell'Alcoa Il ministro Scajola promette che l'azienda non chiuderà Occupato lo stabilimento di Portovesme. Pronti a occupare gli operai di Fusina in Veneto "Noi combattiamo per non perdere il lavoro" avevano affermato gli operai dell'Alcoa di Portovesme a Cagliari durante la manifestazione del 10 novembre scorso e così hanno continuato a fare con forza e determinazione, con scioperi e manifestazioni, con continui presidi davanti a Palazzo Chigi non interrompendo un solo giorno la loro lotta che va avanti dal 2 novembre, quando tre di loro saliti sul silos dell'azienda per protesta, attuano lo sciopero della fame, contro la decisione di Alcoa di chiudere lo stabilimento. Così il 18 novembre, in 200 organizzati dai sindacati di categoria Cgil, Cisl, Uil e Cub, sono tornati sotto Palazzo Chigi per far sentire più forte la loro protesta verso un governo sordo e immobile di fronte al problema dell'occupazione. Ma la polizia pronta a intervenire, per non disturbare il vertice Fao che lì si stava svolgendo, ha manganellato senza riguardo e senza motivo gli operai. Fra i lavoratori ci sono stati dei contusi. La repressione e l'intimidazione sono le sole risposte che il governo del neoduce Berlusconi e la polizia del fascio-leghista Maroni danno ai lavoratori in lotta. La tenace lotta degli operai sardi ha obbligato il governo a intervenire anche se con poca efficacia: il ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola ha presieduto nella stessa mattinata un vertice con il governatore sardo Ugo Cappellacci (Pdl), altri rappresentanti del governo e rappresentanti della direzione della multinazionale americana. L'intesa raggiunta, sottoscritta anche dai sindacati, ha portato l'amministratore delegato di Alcoa Giuseppe Toia a rassicurare che non ci sarà chiusura definitiva dello stabilimento. Una rassicurazione che è durata appena una notte. La direzione aziendale, disdicendo quanto sottoscritto, all'alba del 19 novembre ha comunicato direttamente dalla casa madre americana che se la soluzione al caro energia non si risolverà in tempi brevi la multinazionale prenderà in considerazione la fermata tecnica degli impianti con la conseguente cassa integrazione per gli operai. Fino al 31 dicembre, in seguito alla proroga del governo, sono ancora in vigore le tariffe speciali ma se da gennaio 2010 Alcoa dovrà pagare le tariffe energetiche a prezzo pieno (con costi aggiuntivi di 10 milioni al mese) la decisione di chiudere sarebbe automatica. Questo perché la Commissione europea ha chiesto al governo italiano di recuperare gli aiuti di Stato, circa 270 milioni, concessi ad Alcoa per i suoi impianti in Veneto, a Fusina vicino a Marghera, dal 2006 al 2009, e in Sardegna dal 2006 al 2007 erogati sotto forma di tariffe elettriche agevolate, considerati dall'esecutivo di Bruxelles una violazione della normativa comunitaria. Il governo dovrà recuperare questi soldi da Alcoa per restituirli alla comunità europea. La tracotante multinazionale americana non ha intenzione di sganciare nemmeno un euro nonostante quelli risparmiati in questi anni grazie alle agevolazioni ottenute e, quindi, punto e a capo, come se niente fosse successo da un mese a questa parte. La rabbia degli operai è esplosa: appena appresa la notizia si sono riversati ai cancelli con incredulità, rabbia e esasperazione: "occorre impedire da subito che dalla fabbrica esca anche un solo pezzo di alluminio", hanno affermato e con una ruspa e dei cilindri di alluminio sbarrano l'ingresso principale. Poi tutti in assemblea mentre un gruppo di operai occupa la direzione invitano i dirigenti aziendali ad andare in assemblea per spiegare a tutti cosa sta succedendo. La fabbrica è occupata: da qui, dicono, non esce nessuno. Altri operai fuori turno giungono alla spicciolata per partecipare all'assemblea. Un'infuocata assemblea che prosegue per tutta la giornata e che decide di continuare la protesta senza cedere un millimetro: "per anni avete usufruito degli sconti energetici, dice Bruno Usai delegato Rsu, possibile che adesso non possiate aspettare qualche mese e di punto in bianco decidete di chiudere la fabbrica?"; altri ribadiscono l'impegno del giorno prima svanito nelle nebbie "siamo disperati non è giusto che i primi a pagare il prezzo della crisi siano sempre gli operai. Dopo la chiusura di Eurallumina che ha fatto perdere 1.500 posti di lavoro ora sono a rischio 2.000 tra quelli in fabbrica e quelli dei servizi e dell'indotto. Questo significa mettere in ginocchio l'intera economia del nostro territorio costringendo alla fame migliaia di famiglie". I tre operai che da venti giorni vivono asserragliati sul silos a 60 metri da terra sono scesi per partecipare all'assemblea e poi, rifocillati, sono risaliti per continuare la protesta. Dall'assemblea, alla quale hanno partecipato anche i sindaci dei comuni interessati, è uscita una richiesta unanime: che il governo nazionale e quello regionale si assumano impegni e responsabilità più precise per scongiurare la chiusura invece di perseguire accordi provvisori che non danno alcuna garanzia di prosecuzione dell'attività. Il nodo principale della questione, ribadito da molti degli interventi, è quello di riuscire a garantire energia alle fabbriche a costi che possono consentirne il mantenimento in esercizio essendo competitive rispetto alle industrie che hanno tariffe inferiori anche del 50% a quelle che vengono praticate in Sardegna. "Nessuno si azzardi a parlare di cassa integrazione, dicono all'assemblea, faremo di tutto per scongiurare la chiusura. Siamo pronti a bloccare anche la centrale elettrica dell'Enel qui davanti, lasceremo la Sardegna al buio". In serata la multinazionale americana e i sindacati hanno firmato un documento con il quale l'azienda "è vincolata per due settimane a non mettere in campo alcuna azione che comprometta l'attività dell'impianto". Gli operai oramai avvezzi agli accordi di Alcoa, tolgono il blocco ai cancelli ma decidono di passare la notte in fabbrica per garantire che le celle elettrolitiche non vengano spente e scongiurare che l'impianto sia fermato e poi chiuso. Il 21 mattina ci sono ancora i presidi davanti ai cancelli: un migliaio i lavoratori presenti ai quali si sono aggiunti anche altri delle aziende del polo industriale di Portovesme in solidarietà. Non molleranno. Intanto dallo stabilimento veneto di Fusina vicino Marghera, unito a Portovesme dallo stesso destino, gli operai riuniti in assemblea il 23 novembre ribadiscono che se la decisione della multinazionale americana viene confermata non resta che occupare la fabbrica. Chiesto l'intervento degli amministratori locali e nazionali e impegni concreti visto che anche qui, nel ricco Veneto, sono stati responsabilmente assenti lasciando alla multinazionale americana ampio raggio di profitti. Per il 26, per l'incontro tra Alcoa e rappresentanti sindacali al ministero dello Sviluppo economico a Roma, si prepara una grande manifestazione sotto Palazzo Chigi. Gli operai veneti hanno indetto otto ore di sciopero per partecipare; da Portovesme aggiungono: "riempiremo una nave e porteremo non solo i lavoratori ma anche le famiglie così non potranno picchiarci". 25 novembre 2009 |