Lo rivela un "pentito" della 'ndrangheta "Tutti sapevano dove le 'Br' detenevano Moro" "Moretti pagato dal ministero degli Interni" A poche settimane dalle rivelazioni sul criminale intreccio fra politica, mafia e servizi segreti sul traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive che il 12 settembre scorso hanno permesso ai magistrati della Procura di Paola di individuare, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di veleni, il "pentito" della 'ndrangheta Francesco Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici) a "L'espresso" del 22 settembre ha rivelato un altro inquietante capitolo della sua vita criminale. Fonti ha raccontato del ruolo svolto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle cosiddette "Brigate Rosse" e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente in via Caetani. Il compito di salvare Moro gli fu affidato dal boss Sebastiano Romeo dietro esplicita richiesta dei capibastone della Dc calabrese Riccardo Misasi e Vito Napoli. La sua missione comincia a Roma il 20 marzo del '78 dove: "mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino (lo stesso personaggio dei servizi invischiato anche nella vicenda delle 'navi dei veleni' ndr) un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini (l'ex agente del Sid coinvolto nel golpe Borghese e nella strage di Piazza Fontana ndr). Nel giro di poche ore "Pino" mi fissa "un appuntamento con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro". Durante l'incontro, avvenuto al "Cafè de Paris" in Via Veneto, Zaccagnini esorta Fonti a fare qualsiasi cosa per salvare Moro. Fonti comincia a indagare fra i rappresentanti della 'ndrangheta a Roma e incontra i boss della banda della Magliana che gli riferiscono che negli ambienti della malavita romana tutti sanno che Aldo Moro e i suoi rapitori sono in via Gradoli. "Come è possibile - si chiede allora Fonti - che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Br?". La certezza definitiva sul covo di via Gradoli Fonti dice di averla avuta il 4 aprile successivo quando incontrò il direttore del Sismi Giuseppe Santovito (iscritto alla P2). "Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, dopo un dialogo interlocutorio, Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo ad un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: 'Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro'. In ogni caso, aggiunge congedandomi, 'teniamoci in contatto tramite Pino'". Pochi giorni dopo, il 9 o il 10 aprile, Fonti torna a San Luca per riferire al suo capo, Sebastiano Romeno, il quale, prima gli fa i complimenti per il buon lavoro svolto, ma subito dopo aggiunge: "peccato che da Roma i politici abbiamo cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Fonti però, racconta oggi, che in quella occasione decise di disobbedire agli ordini del boss. Con una telefonata anonima contatta la questura di Roma invitando gli agenti a recarsi immediatamente in via Gradoli 96 perché: "lì troverete i carcerieri di Aldo Moro". Il 18 di aprile, il covo di via Gradoli 96, viene scoperto, ricorda ancora Fonti, "per una strana perdita d'acqua. Ma dei brigatisti come è logico, viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire". Il motivo di questo atteggiamento da parte delle "forze dell'ordine" Fonti dice di averlo capito molti anni dopo, nel 1990, quando si trovò nel carcere di Opera insieme a Mario Moretti con cui entrò subito in confidenza tant'è vero che ad un certo fu lo stesso capo delle "Br" a dire a Fonti che egli riceveva ogni mese una busta con un assegno circolare dal ministero degli Interni. "Qualche tempo dopo - rivela ancora Fonti - un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare i soldi elargiti mensilmente dal ministero dell'Interno lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo dei misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica". 28 ottobre 2009 |