Lo documenta il rapporto Svimez
Il Mezzogiorno si allontana sempre più dagli standard del Nord
Manca il lavoro, crescono i contratti flessibili e il lavoro nero, inadeguati le infrastrutture e i servizi pubblici, la criminalità organizzata la fa da padrone
Riprende l'emigrazione di massa
di Giovanna Vitrano*

Sono estremamente preoccupanti i numeri che emergono dal rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo industriale nel Mezzogiorno) 2007 in cui viene delineato un Meridione che regredisce economicamente e socialmente a vista d'occhio, che si allontana sempre più dagli standard del Nord Italia e che è alle prese con fenomeni sociali, come l'emigrazione di massa, che sembravano appartenere al lontano passato della storia italiana.
In sostanza quello che dimostra chiaramente il rapporto Svimez, è la conclamata ripresa della secolare Questione Meridionale.

Cresce il PIL a scapito delle masse
A fronte dell'aumento della precarietà, del lavoro nero, dello sfruttamento delle masse lavoratrici del Sud e dell'emigrazione, problemi di cui parleremo in seguito, vi è il dato apparentemente contraddittorio dell'aumento del PIL (Prodotto interno lordo) nel Sud all'1,5% nel 2006, pari ad oltre quattro volte quello realizzato dal 2002 al 2005.
In realtà fenomeni che sembrano così contrastanti tra loro sono strettamente correlati e dimostrano che le politiche economiche degli ultimi governi nazionali di "centro-destra" e "centro-sinistra" hanno portato ad una "crescita" degli indicatori economici solo perché in maniera inversamente proporzionale hanno peggiorato le condizioni delle masse popolari.
La condizione del Sud palesa il fatto che quando i politicanti borghesi parlano di "ripresa dell'economia del paese" e di frottole del genere intendono dire semplicemente che i capitalisti e il pugno di ricchi d'Italia, grazie alle privatizzazioni, ai tagli, all'aumento dello sfruttamento, stanno rimpinguando i loro conti in banca a spese delle masse popolari.

Il Sud in mano alla criminalità organizzata
Il dato "positivo" della crescita del PIL rivela tutta la sua inconsistenza anche in relazione agli elementi del rapporto Svimez che ancora una volta indicano un Mezzogiorno in mano alla criminalità organizzata.
Nel 2005 su 109 omicidi riconducibili alle mafie 108 sono stati commessi nel Mezzogiorno. Sempre secondo il rapporto Svimez "su 150mila commercianti in Italia stretti nella morsa degli usurai, la metà si concentra tra Lazio, Sicilia e Campania".
I numeri dello Svimez sono molto importanti, ma da soli non danno il livello del sempre maggiore radicamento della criminalità organizzata nel Mezzogiorno e dell'impatto devastante che la crescita delle mafie ha sulla vita delle masse popolari.
Ad esempio in Sicilia, soprattutto a Palermo, è evidente dalle vicende degli ultimi mesi che la mafia sta riprendendo a muoversi militarmente per riacquistare quel controllo assoluto sul territorio e sulle masse popolari che aveva avuto fino alla fine degli anni '80 e che aveva, in parte, perso nel periodo della mobilitazione di massa e del concentrico attacco della magistratura alle cosche. Che "Cosa nostra" stia tornando a muoversi militarmente lo dimostrano anche le minacce agli attivisti antimafiosi e la ripresa degli omicidi di mafia.
È possibile che questi movimenti militari dipendano dalla possibile apertura di nuovi spazi di appropriazione illecita a seguito delle politiche economiche antipopolari affamatrici dei governi nazionali e locali, anche se pare che la magistratura non abbia ancora elementi per dimostrare una tale ipotesi. È certo, tuttavia, che la mafia non può che essere stata favorita da una serie di provvedimenti da parte dei politicanti borghesi a livello nazionale e locale, in testa le privatizzazioni.

Investimenti pubblici e infrastrutture inadeguati
Secondo i dati Svimez la spesa pubblica per il Sud è ancora lontana dalla quota minima, pari a circa il 38,5% (si tratta di una percentuale espressa come media tra il peso del Sud in termini di popolazione e il suo peso in termini di superfice), necessaria per far fronte alle esigenze normali delle masse popolari dell'area del Mezzogiorno, sia dall'obiettivo sottostimato del 30% che è indicato nei documenti governativi.
Anzi la quota di spesa pubblica ordinaria è diminuita sia al Nord che al Sud, ma con intensità maggiore nell'area meridionale, dove si è localizzato nel 2006 solo il 22,3% della spesa complessiva.
Tali numeri dimostrano, se ce ne fosse bisogno, che al Sud la spesa dello Stato è troppo bassa per far fronte anche alle esigenze normali del funzionamento accettabile dei servizi pubblici di ogni genere, dalle scuole, agli ospedali, ai trasporti e ci dicono che i governi che si sono susseguiti mantengono volontariamente, sulla carta, la spesa più bassa di ben 8,5 punti percentuali rispetto al necessario e addirittura quando si ragiona sugli effettivi stanziamenti lo Stato sta sotto la quota necessaria di oltre 16 punti percentuali.
Si può immaginare allora perché tra cifre di investimento pubblico così sottostimate e gestione clientelare e mafiosa dei pochi soldi stanziati le strutture pubbliche, i trasporti, le scuole nel Mezzogiorno siano da Terzo mondo.
Sulle carenze infrastrutturali, componente importante dell'arretratezza economica del Mezzogiorno, lo Svimez insiste molto. Se si pone a 100 il valore di infrastrutturazione del resto d'Italia il Sud risulta molto indietro. Per le ferrovie il Mezzogiorno sta al 72,3%, nelle due Isole che hanno una carenza secolare su questo fronte, il tasso scende al 40,9%. Le ferrovie risultano, oltre che quantitativamente insufficienti, molto datate ed inadeguate alle necessità attuali.
Inadeguate anche le linee di trasmissione elettrica, al 74% del valore nazionale, e di distribuzione del gas al 44,6%.
Di fronte ad una situazione del genere, diciamo noi del PMLI, laddove è necessario il miglioramento qualitativo e quantitativo delle infrastrutture del Mezzogiorno si può comprendere come il progetto del Ponte sullo Stretto risulti, oltre che dannoso per l'ecosistema e assolutamente improponibile, anche grottesco. Che senso ha, oltre a quello di regalare fondi pubblici alla mafia, un'opera del genere in un contesto dove mancano le infrastrutture essenziali?

Lo sfruttamento delle masse lavoratrici del Sud
Un dato apparentemente positivo quello della "diminuzione" della disoccupazione, che spesso viene citato dai governi nazionale e regionali come indicatore di un miglioramento delle condizioni del Sud, si ribalta in negativo quando si va ad analizzare più attentamente la realtà.
Infatti, se il tasso di disoccupazione scende dal 19% del 2000 al 12,3% nel 2006, lo stesso Svimez avverte che la discesa non significa automaticamente aumento dell'occupazione. Ad esempio in Campania nel 2006 i disoccupati sono scesi di 47.000 unità, ma i nuovi occupati sono solo 4.000.
L'occupazione nell'intero Sud risulta cresciuta appena dello 0,7%, portando il tasso di occupati in età da lavoro al 46,6%, ovvero meno della metà della popolazione in età da lavoro nel Sud. Va ancora peggio alle masse femminili: solo nel 31,2% del totale delle donne in età da lavoro ha un'occupazione e spesso si tratta di lavoro supersfruttato.
È ovvio a questo punto che il principale fattore del calo della disoccupazione è che una quota consistente di lavoratrici e lavoratori ha smesso di cercare un'occupazione. In pratica una gran massa di disoccupati meridionali ha smesso di iscriversi nelle liste di disoccupazione o si è cancellata da esse e lo Stato borghese non li conta più come disoccupati.
In totale la "crescita" dell'occupazione è irrisoria a fronte della reale fame di lavoro del Sud. Appena 105.000 unità di nuovi occupati. Quello che si nota di estremamente preoccupante è che i nuovi occupati sono soprattutto lavoratori cosiddetti "atipici" per la quantità di 75.000 unità. Ovvero per oltre il 71% dell'intera cifra si tratta di lavoratori a termine, stagionali, part-time o con contratti "flessibili" di vario tipo.
Notiamo poi che essi si concentrano in settori non produttivi come i servizi, dove aumentano del 2,1% i "posti di lavoro", oppure in settori produttivi come l'agricoltura, +4,5%, che forniscono, per lo più, lavoro di tipo stagionale e che sono, purtroppo, in crisi, come si evince dal rapporto Svimez.
Mentre si registra un lieve aumento di occupati, alle condizioni che abbiamo spiegato, in un altro settore produttivo come quello dell'industria si registra un calo dello 0,7% di operai nel Mezzogiorno. Basti considerare per comprendere le motivazioni di questo calo la devastante crisi dell'industria siciliana, pilotata dai governi nazionali e regionali, che ha portato via migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato e sindacalmente tutelati in importanti settori produttivi come la metalmeccanica, la siderurgia, i petrolchimici dislocati in varie province della regione.
Il rapporto Svimez calcola anche la quantità del lavoro nero nel Mezzogiorno che si attesta intorno al 1.391.000 unità, pari ad un quinto di tutti i lavoratori del Mezzogiorno, con un aumento nel solo 2006 di 43.000 unità. Il record negativo spetta alla Calabria, con il 27% dei lavoratori in nero.

La ripresa dell'emigrazione
Industria al palo e agricoltura in crisi, flessibilità selvaggia dei rapporti di lavoro, assenza di servizi adeguati, presenza asfissiante della criminalità organizzata, mancanza di prospettive per il futuro. Sembra di parlare del Mezzogiorno del dopoguerra ed è più o meno a quei livelli di arretratezza che lo Stato borghese, ha riportato il nostro Sud. Ed è da questi livelli di arretratezza economica e sociale che è ripreso il dramma dell'emigrazione con tassi che ricordano il grande esodo degli anni '60.
I giovani disoccupati hanno ripreso a spostarsi dalle regioni del Sud verso le "ricche" regioni del Nord, Lombardia ed Emilia-Romagna in testa.
Lo Svimez afferma "nel 2004, in base agli ultimi dati disponibili, sono stati circa 270mila i trasferimenti stabili (120mila) e temporanei (150mila) Sud-Nord: numeri molto elevati, se si pensa che negli anni di massima intensità migratoria 1961-63 la quota raggiunse i 295mila".(1)
Le regioni da cui si emigra di più sono la Campania (38.000 emigrati), la Sicilia (28.600), la Puglia (21.500).
L'emigrato tipo ha "tra 25-29 anni, quasi la metà ha un titolo di studio medio-alto (diploma superiore il 36,3% e laurea il 13,1%)". Si può supporre allora che l'emigrazione dal Mezzogiorno stia diventando un fenomeno generalizzato, che colpisce sia i giovani proletari, che più difficilmente raggiungono tassi alti di scolarizzazione, e i giovani dello strato inferiore della piccola borghesia, i quali generalmente raggiungono titoli di studio più alti, diplomi e lauree.
Ciò a differenza degli anni '60 quando erano solo le masse proletarie contadine del Sud a cercare sbocchi lavorativi al Nord.
Evidentemente questa nuova ondata di emigrazione è causata dalle politiche antimeridionali che hanno mandato in crisi importanti settori produttivi che erano lo sbocco occupazionale dei proletari al Sud, industria, agricoltura, ecc., e hanno chiuso possibilità occupazionali anche per le nuove generazioni dello strato inferiore della piccola borghesia del Sud, le quali storicamente sono stati occupati nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni ecc.
Da questa nuova ondata di emigrazione forzata supponiamo siano esclusi i semi-proletari ed i sottoproletari del Sud sia perché la ricerca di un posto di lavoro implica una qualche qualifica, sia perché, e questa è una novità tutta contemporanea, le famiglie d'origine degli emigrati devono essere in grado di sostenere per un certo periodo le spese di loro emigrati.
A questo punto possiamo supporre che l'emigrazione contemporanea non sia più quel fenomeno sociale che garantiva anche un qualche sostentamento alle famiglie d'origine del Sud. Avere un emigrato che lavorava da operaio in qualche fabbrica del Nord negli anni '60 significava un auito economico per le famiglie proletarie del Sud. Oggi l'emigrazione non produce nuove entrate economiche alle famiglie d'origine. I giovani emigrati vanno infatti incontro a contratti di lavoro che nel migliore dei casi sono di pura sussistenza.
È certo che il Sud ha ancora enormi problemi strutturali nella sua economia, ma quello che secondo noi emerge dal rapporto Svimez è il legame tra l'aggravamento di quel complesso di elementi che definiscono la Questione meridionale e la politica antipopolare condotta negli ultimi anni dai governi nazionali e locali del "centro-destra" e del "centro-sinistra" e ultimamente dal governo del dittatore democristiano Prodi. In sostanza, attacchi ai diritti delle masse lavoratrici e supersfruttamento nei rapporti di lavoro, privatizzazioni e svendita del patrimonio di infrastrutture pubbliche, spesa dello Stato sottostimata e tagli, sono questi gli elementi che hanno condotto al riacutizzarsi dei problemi del Sud.
 
* Responsabile del PMLI per la Sicilia
 
1) Si intende in media 295.000 all'anno. Furono milioni i lavoratori del Sud che emigrarono negli anni '60 verso il Nord o verso l'estero.
 
18 luglio 2007