Sul "reddito di cittadinanza" Per iniziativa, soprattutto di Maurizio Landini, negli ultimi tempi, il tema del "reddito di cittadinanza" è tornato alla ribalta del dibattito politico e sindacale. Il segretario generale della FIOM, da quando lo ha fatto suo, ne è diventato l'alfiere. Lo ha infatti lanciato e rilanciato da tribune importanti e lo ha proposto al Comitato centrale della FIOM che lo ha approvato. Nel documento dell'8 novembre scorso si parla infatti di una "possibile istituzione di un 'reddito di cittadinanza' che, nell'ambito di una riforma del sistema di ammortizzatori sociali e di previdenza sociale, sia da un lato in grado di garantire il diritto allo studio a tutti, dall'altro affronti la questione di una tutela a fronte di una disoccupazione non volontaria, figlia di una precarietà disperata". Già alla manifestazione nazionale della FIOM del 16 ottobre, dal palco di piazza San Giovanni, Landini aveva detto: "per noi il problema dell'estensione dei diritti, dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali fino ad arrivare a cose nuove, a pensare anche forme di 'reddito di cittadinanza', che affrontano in modo diverso il problema di una prospettiva per i giovani, è terreno su cui noi vogliamo lavorare". Al congresso di Sinistra, ecologia e libertà (SEL) di Vendola, di cui è membro, Landini era tornato sull'argomento nel corso del suo intervento al dibattito. Ma è nel dialogo col sociologo torinese, Luciano Gallino, pubblicato sulla rivista Micromega, che Landini chiarisce meglio il suo pensiero in merito. Il "reddito di cittadinanza" è "certamente un elemento di grande innovazione. Debbo dire che io stesso - tiene a precisare - per molto tempo ho pensato che se uno non lavorava non avesse diritto a un reddito (se non nella forma del sussidio per i periodi di disoccupazione fra un impiego e l'altro). Il quadro delle diseguaglianze sempre più crescenti e questa crisi così acuta mi hanno fatto cambiare idea". Il sistema degli ammortizzatori sociali presente va mantenuto, ma esso è legato alla figura del lavoratore con rapporto stabile e continuativo. Vi sono centinaia di migliaia di persone "che hanno avuto rapporti di lavoro precari e poi sono state mandate a casa. Queste persone non possono usufruire di alcuna forma di sostegno al reddito: non hanno nulla". Su domanda del giornalista, Landini indica quelle che secondo lui, dovrebbero essere le priorità: una legge, sulla rappresentanza sindacale; una seconda legge che riduca drasticamente le forme di lavoro precario; al terzo posto "ci metto il reddito di cittadinanza". Velleità filantropiche e riformiste La proposta di un "reddito di cittadinanza" non è né nuova né innovativa, sia come tale, sia nelle sue numerose varianti: "reddito minimo garantito", "reddito sociale di inserimento", "salario sociale". Una proposta di stampo caritatevole, filantropico, al massimo riformista, avanzata nel tempo da economisti liberali come Milton Friedman, Friedrich Hayel, Herbert Simon, o da economisti socialdemocratici, cui si sono aggiunti esponenti neoliberali e trotzkisti. Nella "patria" del capitalismo più liberista e selvaggio, gli Usa, una commissione nominata dal presidente Johnson pubblicò nel 1969 un rapporto che raccomandava di sostituire gran parte delle leggi anti-povertà con un programma che fornisse a tutti gli americani un reddito annuale garantito. La legge non fu approvata per pochi voti. In Italia si sono fatte due esperienze concrete: una a carattere nazionale e l'altra a carattere regionale. La prima riguarda il "reddito minimo d'inserimento" (RMI) introdotto dai governo Prodi e D'Alema con il Dlgs n.23/98 come parte integrale della "riforma" dell'assistenza sociale della ministra Livia Turco, con risultati deludenti, per non dire fallimentari. La seconda riguarda il disegno di legge approvato il 27 gennaio del 2004 dal consiglio regionale della Campania, con i voti del "centro-sinistra", di Rifondazione e persino di AN, sul "reddito di cittadinanza"; un'elemosina di Stato di 350 euro mensili da erogare in via sperimentale a nuclei familiari con un reddito inferiore a 5 mila euro all'anno. Ambedue queste esperienze non sono andate oltre a una misera elemosina per pochi e hanno avuto vita breve. Per alcuni anni non se n'è fatto più di niente. Ora, invece la richiesta di un "reddito di cittadinanza" ha ripreso quota. C'è chi sostiene che essa debba diventare una bandiera di lotta della sinistra. Nel giugno scorso, al parlamento europeo il gruppo della "sinistra" ha rivendicato l'introduzione di un "salario minimo garantito" per tutti in sostituzione del sistema attuale dei sussidi delle detrazioni fiscali e con l'assorbimento delle pensioni minime statali. Così, sostengono i promotori, "la disoccupazione, intesa come status amministrativo, sarebbe eliminata e con essa - si afferma in modo assai azzardato - la divisione dei cittadini in due classi, i lavoratori e i disoccupati". Un "reddito di cittadinanza", è la tesi, per combattere le conseguenze della globalizzazione dei mercati, soprattutto in tempi di grave crisi, come l'attuale, in relazione alla disoccupazione, alla precarietà e alla conseguente povertà endemica. Una teorizzazione, in questo senso, la fornisce il professor Gallino. Il quale sostiene che sul fronte dell'occupazione, a parte una stretta minoranza particolarmente professionalizzata, il resto si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un lavoro; infine quelli che un lavoro non lo troveranno mai. Se questa è la prospettiva, sostiene Gallino, gli attuali ammortizzatori sociali risultano del tutto inadeguati. Da qui l'esigenza di un sostegno al reddito attraverso l'introduzione del "reddito di base", denominazione internazionale oramai affermata in luogo di "reddito garantito", "reddito di cittadinanza" e altri. "Poiché il lavoro tende a scomparire - insiste Gallino - ma le persone con i loro diritti e bisogni no, occorre trovare il modo di distribuire un reddito anche a chi non lavora. Nella forma ideale il reddito base dovrebbe quindi consistere in una somma bastante per condurre una vita decente, versata regolarmente dallo Stato o un ente locale o altra 'comunità politica' al singolo individuo, senza che questo debba soddisfare alcuna condizione. Non importa se povero o no, se possa dimostrare di cercare attivamente un lavoro, e nemmeno se lavori o no". Tra i vantaggi, è la sua conclusione, ci sarebbe la libertà del disoccupato a cercare un lavoro senza doverne accettare, per disperazione, uno con una paga di fame e al disotto del proprio titolo. Dunque, nell'ultima versione teorica, questo "reddito di cittadinanza" dovrebbe essere un "reddito di base" universale pagato a tutti, senza alcun obbligo di attività, per una somma sufficiente a esistere e a partecipare alla vita della società. Esso dovrebbe essere inalienabile e incondizionato, diversamente dall'indennità di disoccupazione, condizionata alla ricerca di un lavoro; cumulabile con un reddito da lavoro; corrisposto alle persone fisiche e non alla famiglia. Una risposta fuorviante Ciò che viene detto sulla globalizzazione, anche se andrebbe specificato che si tratta di globalizzazione imperialista, sulle politiche neoliberiste che hanno fatto seguito che hanno portato la competizione internazionale a livelli estremi e sulle devastanti conseguenze sui diritti e sulle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, in testa le nuove generazioni e i migranti, ha in buona parte fondamento: la disoccupazione endemica, precarietà di massa, caduta verticale del potere d'acquisto di salari e pensioni, esclusione crescente dei ceti meno abbienti dal diritto allo studio, sviluppo di vere e proprie povertà a macchia d'olio. E tuttavia, la proposta del "reddito di cittadinanza" come risposta a tutto questo continua a non convincerci, rimane la sensazione che si tratti di una risposta fuorviante, rispetto alle battaglie che si devono fare e che vanno fatte. Lo stesso paradigma disegnato come sfondo e come supporto di questa rivendicazione, che si fonda su una concezione post-fordista e che propone appunto un "salario sociale" staccato dalla condizione di occupato/disoccupato a noi pare forzato. C'è, nei fatti, una rinuncia alla piena occupazione e ai diritti sociali, del lavoro e previdenziali fondamentali universalistici dichiarati irrealizzabili nel tempo della globalizzazione (imperialistica) e dunque un ripiegamento sul terreno della sussidiarietà, sul "minimo vitale". Un ripiegamento di stampo riformistico, non nuovo ma vecchio, giacché anche gli economisti e i politici della borghesia si sono prodotti nel tempo in proposte di questo genere per evitare rivolte e ribellioni degli affamati e degli oppressi. Tutto interno al capitalismo. Anche noi siamo convintissimi che nel capitalismo non si possono risolvere in modo soddisfacente e duraturo i problemi della masse lavoratrici e popolari. E infatti poniamo al centro della nostra strategia la lotta per il socialismo. Ed è all'interno di questa strategia che inquadriamo le rivendicazioni immediate sia che riguardino il lavoro, la precarietà, il salario, il fisco, la previdenza, la casa, la scuola, il Mezzogiorno, la parità uomo-donna e via dicendo. Non va indebolita ma rafforzata la lotta per il lavoro a tutti stabile e a salario intero a tempo pieno e sindacalmente tutelato, a partire dall'abrogazione della legge 30 e dalla stabilizzazione di tutti i precari, lo sviluppo del Mezzogiorno almeno al pari degli standard raggiunti al Centro-Nord del Paese, piani straordinari per l'occupazione per i giovani, le donne, disabili e disoccupati di lunga data, un servizio sanitario pubblico e gratuito in tutto il territorio nazionale, una scuola e una università pubbliche, gratuite e governate dalle studentesse e dagli studenti, un sistema previdenziale nazionale pubblico, universale, unificato, a ripartizione, fondato sulla contribuzione obbligatoria e con una tassa sui profitti dei capitalisti, pensioni dignitose da lavoro, sociali e d'invalidità, salari adeguati a una vita degna, forte alleggerimento delle tasse ai lavoratori dipendenti alle pensioni più basse e aumento progressivo delle tasse ai ceti ricchi e ai grossi possessori delle rendite patrimoniali e finanziarie. Inoltre la lotta all'evasione fiscale e contributiva, il contrasto al "lavoro nero". Tutto ciò non esclude gli "ammortizzatori sociali", a partire dall'indennità di disoccupazione che deve essere pari al salario medio degli operai dell'industria, tutt'altro! Anzi chiediamo che siano aggiornati ai nuovi bisogni e che siano estesi a tutti coloro che attualmente ne sono esclusi per legge: sia che riguardino il diritto al lavoro (nessuno deve rimanere a casa senza reddito), il diritto allo studio, il sostegno al mantenimento dei figli, il diritto ai servizi pubblici per i più poveri. Non escludiamo strumenti di sostegno al reddito ma tali strumenti non devono sostituire o surrogare i diritti ma semplicemente integrarli. 2 febbraio 2011 |