Napolitano, governo, Confindustria e sindacati crumiri adottano il modello Marchionne delle relazioni industriali mussoliniane Respingere il patto della produttività I lavoratori avranno meno retribuzione e diritti sindacali in nome della crescita della produttività e della competitività. La Camusso non firma, ma condivide troppe cose del patto, soprattutto l'impianto generale e lo scopo Colpo mortale al contratto nazionale Dopo l'accordo separato del gennaio 2009 che ha aperto la strada alla demolizione della contrattazione collettiva in favore di quella aziendale, e l'accordo del 28 giugno 2011, firmato anche dalla CGIL, che ha riscritto le regole della contrattazione e della rappresentanza sindacale, ecco arrivare il terzo e ultimo atto della sporca operazione tesa ad assestare il colpo mortale al contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) e ad imporre in tutti i settori lavorativi le relazioni industriali mussoliniane di Marchionne: il 21 novembre a Palazzo Chigi, tra Confindustria, Rete imprese Italia, Alleanza cooperative, ABI e ANIA, e le organizzazioni sindacali crumire CISL, UIL e UGL, è stato siglato un patto denominato "Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia", che sposta di peso il baricentro della contrattazione sindacale da quella collettiva nazionale a quella articolata aziendale e interaziendale, legando rigidamente ogni aumento salariale all'aumento della produttività e della competitività delle imprese, e subordinando le normative sugli orari e sull'organizzazione del lavoro, nonché gli stessi diritti finora inalienabili dei lavoratori, alle esigenze produttive delle aziende e all'andamento dei mercati. Il patto conclude la trattativa sulla produttività, a cui ha partecipato anche la CGIL, iniziata a settembre sotto l'egida del governo Monti, che lo ha subito "recepito" mettendo sul piatto 2,1 miliardi di sgravi fiscali destinati a "premiare" gli aumenti di produttività aziendali. La CGIL però non ha voluto firmarlo, e la sua segretaria Susanna Camusso ha dichiarato che "l'accordo sulla produttività aumenta la recessione e scarica i costi sulla parte più debole del Paese". Anche se, va detto, non lo rigetta in toto e anzi ne condivide l'impianto generale e gli obiettivi, che del resto discendono direttamente dall'accordo del 28 giugno anche da lei firmato, tant'è vero che fino all'ultimo e proprio appellandosi al rispetto di quell'accordo ha perseguito tenacemente un'intesa unitaria chiedendo invano alcune "modifiche migliorative" al patto. Fine della politica rivendicativa collettiva Il disegno reazionario e non certo "migliorabile" di questo accordo emerge invece chiaramente già nella premessa del documento, in cui le parti concordano sulla "valorizzazione degli accordi collettivi per il miglioramento della produttività", a fronte di un impegno del governo e del parlamento di "rendere stabili e certe", per la contrattazione di secondo livello, misure di detassazione legata ad aumenti di produttività sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, con un'imposta sostitutiva netta del 10% e fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita. In questo modo, con un semplice tratto di penna, i sindacati collaborazionisti archiviano per sempre la storica rivendicazione della riduzione della pressione fiscale su salari e stipendi. Una rivendicazione fino ad ora incondizionata, in quanto elementare misura di giustizia sociale, e d'ora in poi legata invece all'aumento dello sfruttamento: se vuoi gli sgravi fiscali devi guadagnarteli producendo di più. Ma con ciò non è stato accettato soltanto questo aberrante principio, c'è ben altro: assodato il "superamento definitivo del sistema di indicizzazione dei salari" grazie all'infame patto sociale del 1993, si proclama infatti che il CCNL "avendo l'obiettivo di tutelare il potere d'acquisto delle retribuzioni, deve rendere la dinamica degli effetti economici, definita entro i limiti fissati dai principi vigenti, coerente con le tendenze generali dell'economia, del mercato e del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e gli andamenti specifici del settore". Ciò significa in parole povere che perfino il semplice adeguamento salariale all'aumento del costo della vita inserito normalmente nei contratti collettivi non è più un diritto elementare per difendersi dall'inflazione, per quanto ormai ridotto al lumicino, ma un "lusso" subordinato alle infinite variabili dell'economia e dei mercati. Dopo la cancellazione della scala mobile, il "tasso programmato di inflazione" e l'indice europeo IPCA depurato dei prezzi petroliferi imposto con l'accordo separato del 2009, questa è la picconata definitiva al principio dell'indicizzazione dei salari. Si stabilisce inoltre che "una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello". È chiaro che in questo modo i salari minimi di categoria potranno non essere più uguali per tutti i lavoratori e per tutto il territorio nazionale, e che con ciò si sancisce di fatto la fine dei contratti collettivi, privandoli della loro forza fondamentale che è quella di unificare e rendere più efficaci le lotte dei lavoratori, frantumandole invece in una giungla di vertenze aziendali e di gruppo dove si possono contrattare solo aumenti salariali legati alla produttività. Diritti dei lavoratori subordinati alla produttività Questa logica devastante di destrutturazione della contrattazione collettiva non è applicata solo all'aspetto salariale, bensì viene estesa anche al campo normativo e dei diritti fondamentali dei lavoratori: si dice infatti che "per perseguire la semplificazione normativa, il miglioramento organizzativo e gestionale", il CCNL deve "prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro". Quanto a quelle materie "oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente incidono sul tema della produttività del lavoro", le parti prevedono che d'ora in avanti sia la contrattazione ad occuparsene in piena autonomia. Tra queste vi sono "le tematiche relative all'equivalenza delle mansioni e all'integrazione delle competenze" e "le modalità attraverso cui rendere compatibile l'impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori". E a questo proposito convengono che a livello legislativo vengano assunti "provvedimenti coerenti con le intese intercorse". In soldoni ciò significa che in nome di una maggiore produttività si potrà derogare alle leggi vigenti cambiando le mansioni al lavoratore (demansionamento), quindi anche con riduzione di salario (cosa oggi proibita dall'art. 2103 del Codice civile) e persino, con lo stesso pretesto, agire in deroga allo Statuto dei lavoratori che proibisce la videosorveglianza del personale. Sarà poi il parlamento a "sanare" a posteriori lo sfregio ai diritti attraverso apposite modifiche legislative: in altre parole è il recepimento nel patto per la produttività del famigerato art. 8 della manovra dell'agosto 2011 del governo Berlusconi, ideato dal gerarca nero Sacconi per "legalizzare" l'infame "accordo" di Pomigliano imposto da Marchionne, poi esteso a tutti gli stabilimenti Fiat, che ha azzerato i diritti dei lavoratori del gruppo. Nuove regole di rappresentanza neocorporative Entro il 31 dicembre si procederà poi alla "misurazione della rappresentanza sindacale in attuazione dell'accordo del 28 giugno", con le relative modifiche alle norme attuali e disposizioni per garantire "l'effettività e l'esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti". Significa che non saranno considerate rappresentative quelle sigle sindacali che non raggiungono il 5% dei lavoratori (non dei soli iscritti al sindacato). E di conseguenza che potranno essere sanzionati gli scioperi e ogni altra forma di lotta di quelle organizzazioni che si ribellano agli accordi capestro e alla "pace sociale" in fabbrica accettati dai sindacati crumiri. Anche in questo il modello Pomigliano ha fatto scuola. Vi sono poi altre vere e proprie perle di neocorporativismo, come il capitolo dedicato alla "partecipazione dei lavoratori nell'impresa", da perseguire con una delega al governo per la promozione degli enti bilaterali sindacati-imprese e "l'incentivazione dell'azionariato volontario dei dipendenti, anche in forme collettive"; L'adeguamento della scuola, sia pubblica che privata, all'obiettivo di una maggiore produttività, puntando soprattutto sull'incentivazione delle scuole professionali (e ovviamente, anche se non viene detto, a scapito dell'istruzione pubblica universale di base); forme di cosiddetta "solidarietà intergenerazionale", per cui i lavoratori anziani dovrebbero rinunciare a parte del proprio orario di lavoro (e quindi anche di salario e di contributi pensionistici) per l'inserimento di giovani nelle aziende, e così via. Continuità col governo Berlusconi Se meritano solo disprezzo le dichiarazioni ipocrite e scontate di giubilo dei leader sindacali crumiri e fiancheggiatori di Monti, come Bonanni, secondo cui "un accordo del genere è conveniente per il lavoratore", ed è "sicuramente l'inizio di una nuova stagione di relazioni sindacali", niente meglio delle dichiarazioni di due protagonisti come l'ex ministro del Lavoro Sacconi e il ministro per lo Sviluppo economico, Passera, può chiarire il disegno reazionario, liberista e neocorporativo fascista di questo patto che realizza una perfetta continuità tra il governo del neoduce Berlusconi e quello del tecnocrate liberista borghese Monti; e che si proietta addirittura nella nuova legislatura, costituendo un vincolo anche per i futuri governi, non importa se formati dalla destra o dalla "sinistra" borghese. "Per quanto annacquato dall'inseguimento inutile della CGIL - ha detto Sacconi del patto - conferma nei fatti l'adesione di tutte le altre organizzazioni all'impiego dell'art. 8 del DL 138/11 per lo sviluppo degli accordi aziendali e interaziendali. In gioco c'è il superamento del modello ideologico delle relazioni industriali centralizzate per privilegiare la naturale collaborazione tra imprenditori e lavoratori nella concretezza delle situazioni locali". E Passera, in un'intervista a La Stampa del 23 novembre, ha aggiunto: "Questo esecutivo sta rifacendo le fondamenta della casa. Era necessario e in condizioni così avverse abbiamo fatto il massimo - sempre con l'appoggio del Parlamento - ma molto altro resta da fare. Sarà il compito del prossimo governo, che avrà un orizzonte più lungo e che dovrà concentrarsi su altri problemi strutturali: ad esempio il processo decisionale che in Italia è imballato. Troppi soggetti possono porre veti senza assumersene le responsabilità". Le pressioni di Monti e Napolitano e le ambiguità della Camusso Sia Passera che Monti si sono detti "dispiaciuti" per la mancata firma della CGIL, auspicando "un ripensamento" della Camusso, ma entrambi hanno voluto sottolineare che il patto andrà avanti per la sua strada con o senza il suo consenso. L'accordo è "completo, condiviso, autosufficiente", ha avvertito Monti, e comunque l'assenza della CGIL non peserebbe "dal punto di vista operativo". Anche Napolitano ha benedetto il patto ed esortato la CGIL a firmarlo: l'accordo, ha detto parlando mentre era in visita di Stato a Parigi, "è un fatto importante", e per quanto riguarda la mancata firma di Camusso, "mi pare di capire che la porta è sempre aperta. Ci possono essere, e io mi auguro che accada, degli avvicinamenti, perché è importante che non manchi il contributo della CGIL". Del resto, riguardo a quest'ultima, abbiamo già detto che il suo rifiuto non è di principio, anche perché ciò sarebbe in piena contraddizione con la firma dell'accordo del 28 giugno dal quale discendono l'intero impianto e perfino molte delle formulazioni letterali del patto per la produttività. Come la subordinazione della contrattazione alla "competitività dell'impresa" e di quella collettiva "alle differenti necessità produttive" rendendo preminenti "lo sviluppo e la diffusione della contrattazione aziendale", la "certezza" degli accordi aziendali con le relative sanzioni per i dissenzienti, le nuove regole della rappresentanza sindacale, e l'art. 7 che consente "in situazioni di crisi o investimenti significativi" (vedi caso Fiat) accordi in deroga al contratto nazionale su prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro. Tutto questo era già stato accettato dalla CGIL, e successivamente anche dalla FIOM di Landini, tanto che proprio in nome di ciò nell'ultimo Direttivo CGIL era stata avanzata la proposta, poi ritirata, di firmare il patto almeno "per presa d'atto". In una lettera inviata alle parti dopo essere stata messa alle strette dal governo, la Camusso aveva ammesso che nel documento c'erano "elementi d'avanzamento nella difesa della condizione delle persone", per cui "il negoziato merita la prosecuzione". E si diceva anche d'accordo sul principio che "il secondo livello deve aggiungere risorse legate alla produttività nell'impresa". Tuttavia esprimeva riserve sui minimi contrattuali, sul demansionamento e sulla sorveglianza dei lavoratori, nonché sulla rappresentanza, invocando il rispetto dell'accordo del 28 giugno e chiedendo la partecipazione della FIOM alle trattative per il contratto dei metalmeccanici; ricevendone però un rifiuto netto sia dalla Confindustria che da CISL, UIL e UGL, in quanto la FIOM non aveva firmato il precedente contratto separato. Così come hanno rifiutato qualsiasi proposta emendativa alla "bozza" di accordo già da loro scritta e presentata alla Camusso con un prendere o lasciare. Le pressioni del PD per un "ripensamento" della CGIL È soprattutto per questo diktat arrogante che Susanna Camusso ha dovuto rifiutarsi di firmarla, sia pure a malincuore e a un passo dal farlo. Tanto che il segretario confederale della CGIL, Vincenzo Scudiere si è così rammaricato: "È un'occasione perduta dal governo per cercare una soluzione unitaria... la CGIL ha sempre pensato di seguire la scia dell'accordo del 28 giugno". Perciò "un ripensamento" non è affatto escluso, come è già successo altre volte in passato. Del resto anche il PD sta pressando la CGIL affinché ci ripensi ed "esca dall'isolamento". Si va dalle dichiarazioni del berluschino Renzi ("Il rapporto con le sigle sindacali può essere di collaborazione, ma nessuno può scambiare la concertazione per diritto di veto", ha detto con la solita supponenza), a quelle del liberale Bersani, che dà alla Camusso appuntamento a dopo le elezioni, quando ci sarà lui al governo ("è stato fatto un passo, ma è necessario discutere ancora per raggiungere un'intesa più completa l'anno prossimo"). Passando per il responsabile economico Fassina, il quale riconosce che senza la firma della CGIL sotto l'accordo "c'è un problema", ma spera in una "coerente applicazione del Protocollo del 28 giugno". Per non parlare del presidente della Lega delle Cooperative, Luigi Marino, che ha così bacchettato la CGIL: "Questo Paese deve cominciare a procedere per balzi e non per passettini, va superata l'idea che ci siano tabù inviolabili". Respingere l'accordo capestro con la lotta Nessun "ripensamento" della CGIL è invece ammissibile. Questo accordo è da respingere in blocco con la lotta, perché mira a far uscire il capitalismo italiano dalla sua crisi di competitività attraverso il supersfruttamento e la schiavizzazione dei lavoratori in cambio di un'elemosina, secondo il modello di Marchionne delle relazioni industriali mussoliniane che il PMLI ha denunciato fin dal suo primo apparire con la vertenza di Pomigliano. Questo disegno comincia a essere sempre più chiaro anche nell'area del dissenso sindacale, sia all'interno che all'esterno della CGIL. La Rete 28 Aprile, per esempio, in un volantino pubblicato sul suo sito denuncia l'accordo come un "vergognoso accordo truffa che cancella il CCNL e applica in tutti i luoghi di lavoro il modello Marchionne", invitando la CGIL ad "essere coerente e combattere ovunque l'accordo e chi lo sostiene senza pasticci e senza ambiguità. La prima cosa da fare è togliere la firma dall'accordo del 28 giugno 2011, che ha aperto la via a questo disastro". Anche l'Unione sindacale di base (USB), denuncia in un documento che l'accordo sulla produttività "rappresenta l'ennesimo pesantissimo macigno che di fatto impone il modello Marchionne all'intero mondo del lavoro". Occorre però far comprendere questo pericolo mortale anche alla grande massa delle operaie e degli operai e dei lavoratori, e per questo è necessario unire tutte le forze di coloro che non accettano questo accordo capestro in una grande battaglia per denunciarlo e respingerlo nel sindacato, nelle fabbriche e nelle piazze. E anche per chiedere alla CGIL una prova di fermezza, respingendo le pressioni da destra e proclamando invece la mobilitazione generale dei lavoratori per affossarlo. Che cosa ci vuole ancora perché la direzione della CGIL si decida a riporre ogni illusione di venire ad un accordo con questo governo della grande finanza, della UE e della macelleria sociale, e scegliere la strada della lotta nelle fabbriche e nelle piazze per farlo cadere, cominciando col proclamare senza altri indugi e unitariamente ai "sindacati di base" lo sciopero generale nazionale di 8 ore con una grande manifestazione a Roma? 28 novembre 2012 |