I padroni, con il governo Berlusconi, vogliono cancellare la lotta di classe e le conquiste sindacali dei lavoratori Respingere il nuovo "patto sociale" invocato da Marchionne Le relazioni industriali della terza repubblica non devono passare Ogni parola e ogni atto dell'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, sempre più nelle vesti del nuovo Valletta, almeno dall'accordo separato del 15 giugno 2010 per la Fiat di Pomigliano d'Arco, ribadiscono e rafforzano l'esistenza di un piano sistematico di distruzione dei diritti dei lavoratori sanciti nel contratto nazionale, nelle leggi e per quanto riguarda il diritto di sciopero e di organizzazione sindacale persino nella Costituzione. Un piano pericolosissimo, su questa materia il più grave dal dopoguerra, che gode dell'appoggio del governo del neoduce Berlusconi che da tempo persegue gli stessi obiettivi, della Confindustria della Marcegaglia e della servile acquiescenza dei sindacati complici, la Cisl e la Uil di Bonanni e Angeletti. Un piano che mira a cambiare radicalmente le condizioni di lavoro in fabbrica per fare affermare un regime di supersfruttamento bestiale e disumano e delle relazioni industriali, dove il potere di contrattazione dei sindacati è ridotto a zero. A loro, il supermanager del Lingotto chiede, anzi pretende, solo dei sì. L'intervento al meeting di Rimini Questa strategia padronale, di fatto ispirata un po' al thatcherismo e un po' al corporativismo fascista, impastata perciò di iperliberismo e neofascismo, Marchionne l'ha rispiattellata pari pari nel suo lungo discorso titolato pomposamente "Saper scegliere la strada", tenuto nell'assemblea plaudente del meeting di Rimini di "Comunione e Liberazione" il 26 agosto scorso. Al di là delle stucchevoli note personali autocelebrative: della serie, avete visto come sono stato bravo allorché fui chiamato nel 2004 a guidare una Fiat avviata al fallimento; senza dire nulla però sui costi sociali pesantissimi pagati dai lavoratori con la cassa integrazione e la perdita di posti di lavoro, senza dire nulla delle rilevanti agevolazioni ricevute dalle casse dello Stato. Al di là degli autocomplimenti a se stesso e ai suoi collaboratori per ciò che stanno realizzando alla Chrysler americana con tanto di ringraziamenti pubblici del presidente Usa Barak Obama, il fulcro dell'intervento del nuovo Valletta nel meeting ciellino è rappresentato dal progetto cosiddetto "Fabbrica Italia". Il teorema, tutto padronale, riproposto da Marchionne è quello sentito e risentito in questi mesi: la Fiat, che è una multinazionale e ha numerosi stabilimenti di produzione in altri paesi, frutto evidentemente di precedenti delocalizzazioni, è disponibile a investire in Italia e ad aumentare sensibilmente la produzione delle auto ma in cambio vuole totale mano libera nella gestione degli stabilimenti e nell'uso della mano d'opera che in concreto si realizza con la disdetta del contratto nazionale e dei contratti aziendali, con il radicale cambiamento dell'organizzazione del lavoro totalmente flessibile, con un regime di fabbrica da caserma dove vige l'assoluto arbitrio del padrone, in deroga alle stesse leggi dello Stato. Ed è ciò che l'azienda in buona sostanza ha già ottenuto per lo stabilimento di Pomigliano ma che ora rivendica anche per gli altri stabilimenti di Torino, Cassino, Melfi. Per Marchionne questi cambiamenio radicali delle relazioni sono inevitabili e indiscutibili, lo richiede il mercato globalizzato per competere a livello internazionale, specie con le produzioni di paesi come la Serbia, la Polonia, il Brasile, l'Argentina, per non dire della Cina, dove i salari sono da fame e i diritti sindacali praticamente inesistenti. Il progetto "Fabbrica Italia" Questo progetto "Fabbrica Italia" che, ricordiamolo, la prima decisione assunta è stata la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e il licenziamento di 2 mila dipendenti, che non ha ancora chiarito esattamente qual è il piano industriale (cosa si produce, dove e con quanti lavoratori), che non prevede impegni certi, e infatti la nuova monovolume che doveva essere montata a Mirafiori è stata spostata in Serbia e anche la nuova Panda promessa a Pomigliano rimane sempre in bilico tra Polonia e Italia, questo progetto procede a colpi di odiosi diktat (o fate come dico io o chiudo gli stabilimenti e porto le produzioni all'estero), non prevede alcuna trattativa con i sindacati (da essi Marchionne vuole solo un sì o un no, nient'altro!), non tollera alcun dissenso e nessuna protesta, come è emerso chiaro nei licenziamenti antisindacali a Melfi, a Torino e a Pomigliano. Chi accetta questo "cambiamento" che Marchionne definisce anzitutto "culturale", prima che industriale sindacale, è al passo con i tempi, è moderno e lavora per il progresso: il riferimento è alla Cisl di Bonanni e alla Uil di Angeletti citati esplicitamente nel discorso riminese come esempi positivi. Chi invece lo ostacola, e qui il riferimento è chiaramente diretto alla Fiom, è rimasto legato a visioni vecchie e superate. "Quella alla quale stiamo assistendo in questi giorni - afferma infatti - è la contrapposizione tra due modelli: uno che si ostina a proteggere il passato, l'altro che guarda avanti. Fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi modelli, non ci sarà mai spazio per guardare nuovi orizzonti". Su questo punto il "salvatore dell'industria dell'auto" insiste molto: "La verità è che questo sforzo - afferma - viene visto da alcuni con la lente deformata del conflitto. Non siamo più negli Anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani - aggiunge - continuando a pensare che ci sia una lotta tra 'capitale' e 'lavoro', tra 'padroni' e 'operai'. Se l'Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai niente. Erigere barricate all'interno del nostro sistema alimenta solo guerra in famiglia. L'unica vera sfida è una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al Paese la possibilità di andare avanti". Nel "patto" solo la linea della Fiat Ammesso e non concesso che ciò sia possibile, è paradossale che nello stesso momento in cui il piano della Fiat evidenzia oggettivamente gli opposti interessi tra operai e padroni e ne alimenta inevitabilmente il contrasto (destinato a crescere nei prossimi mesi) Marchionne chieda di mettere nella soffitta della storia la lotta di classe, per sostituirla con un nuovo "patto sociale" di stampo neo corporativo, attorno agli interessi della Fiat e ai profitti della famiglia Agnelli per la quale Marchionne opera. Costui non accenna mai ai diritti dei lavoratori, parla di impegni e responsabilità, decisi dall'azienda, da condividere, di sacrifici tutti a carico degli operai. Marchionne in realtà i diritti dei lavoratori li disprezza. Ciò è emerso, in modo particolare, quando ha ribadito, ai tre operai della Fiat di Melfi ingiustamente licenziati, l'accusa menzognera di sabotaggio; e quando ha sostenuto di aver ottemperato alla sentenza del Tribunale di Melfi e reintegrato i suddetti operai, quando tutti sanno che non è vero. Non c'è una sola ragione per cui gli operai della Fiat debbano accettare il "patto sociale" proposta da Marchionne. Lo stesso vale anche per i sindacati, anche se i sindacalisti collaborazionisti Bonanni e Angeletti già lo hanno fatto. Ve ne sono invece mille per rifiutarlo e respingerlo risolutamente. Perché è falso sostenere che gli interessi della Fiat, sono gli stessi dei lavoratori. Perché tale patto non è frutto di una lotta e di una trattativa e quindi un compromesso tra le parti, ma solo il recepimento della linea aziendale unilateralmente e prepotentemente messa in atto e rappresenterebbe solo una resa totale dei lavoratori alle pretese padronali. Lo dimostra il fatto che nei giorni precedenti alla proposta di questo patto Marchionne ha annunciato con un atto d'imperio la disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici e la fuoriuscita da Federmeccanica e, peggio ancora, ha costituito il 19 luglio scorso, la nuova società "Fabbrica Italia Pomigliano Spa" con lo scopo di "riassumere" gli attuali dipendenti della Fiat di Pomigliano, facendo firmare loro un contratto individuale che recepisce in toto l'accordo separato sopra richiamato. Chi si rifiuta di accettar il diktat aziendale, è l'intento evidente, rimane fuori dalla fabbrica e perde il posto di lavoro. I motivi per opporsi C'è poi un motivo più generale per contrastare fermamente il piano della Fiat di distruzione dei diritti contrattuali, sindacali e legislativi dei lavoratori. Ed è quello della generalizzazione di questa offensiva all'insieme dei metalmeccanici e alle altre categorie di lavoratori. Insomma diventerebbe (forse è già diventata, a sentire le esternazioni della Marcegaglia) la linea della Confindustria. Non si può ignorare l'evidente convergenza tra il governo del nuovo Mussolini e quella del vertice Fiat per smantellare i contratti nazionali, cancellare lo "Statuto dei lavoratori" sostituendolo con un "Statuto dei lavori" che tra l'altro non preveda il reintegro in caso di licenziamento ingiusto, introdurre relazioni sindacali da terza repubblica, sulla base di quanto previsto del "Piano di rinascita democratica" della P2 di Gelli. In questo contesto, l'apprezzamento di Napolitano reso pubblico con una lettera per quanto la Fiat sta facendo per adeguarsi alle "radicali trasformazioni in atto sul piano globale" e l'invito a governo e "parti sociali, nessuna esclusa" a confrontarsi su questo terreno, appare oggettivamente un sostegno alla linea Marchionne. Non si vede davvero cosa di positivo possa ricavare il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ad accettare l'invito di Marchionne ad incontrarsi, peraltro non ufficiale ma rivolto tramite i giornalisti al termine del suo intervento al meeting di Rimini. La strada da battere è quella della lotta di classe. Si deve muovere la piazza. Gli appuntamenti già fissati dalla Cgil e dalla Fiom rispettivamente per il 29 settembre e per il 16 ottobre per delle grandi manifestazioni nazionali a Roma sono senz'altro delle ottime occasioni per sviluppare un movimento di opposizione di massa alla linea della Fiat e del governo. Indubbiamente i metalmeccanici avranno un ruolo di punta e il PMLI li appoggia con determinazione e in maniera militante. 1 settembre 2010 |