Contro l'accordo separato tra la Fiat di Valletta e la UIL e il Sida La rivolta di piazza Statuto del 1962 aprì la strada al Sessantotto e all'autunno caldo del 1969 Per la prima volta il PCI revisionista e la CGIL furono scavalcati a sinistra dai lavoratori e dai giovani In occasione del 50° anniversario della gloriosa rivolta operaia del 7-8-9 luglio 1962 in Piazza Dello Statuto a Torino, il PMLI e "Il Bolscevico" rendono omaggio ai protagonisti di quella esemplare stagione di lotte che segnò l'irrompere di nuove schiere di giovani operai nell'arena della lotta di classe contro il capitalismo e la classe dominante borghese per farla conoscere, capire e apprezzare alle nuove generazioni, per imparare e prendere esempio da quella breve eppur ricca e intensa esperienza che anticipò e preparò la Grande Rivolta studentesca, operaia e popolare del Sessantotto che va dal '67 al '70 e in particolare nell'autunno caldo del 1969 e i cui ultimi bagliori arrivano fino al '74-'75. Si tratta di un avvenimento molto importante perché scaturisce da un periodo e da una situazione politica ed economica che per molti versi è simile a quella presente, con le masse popolari e operaie schiacciate, torchiate e gettate sul lastrico dal governo della grande finanza, della Ue e della macelleria sociale di Monti. Sfruttate, oppresse e licenziate senza pietà dai padroni capitalisti con alla testa Marchionne; ingannate e legate mani e piedi al carro imperialista dalla "sinistra" del regime neofascista e dai vertici sindacali collaborazionisti che oggi come allora svolgono un'odiosa azione di pompieraggio e rimandano alle calende greche l'indizione dello sciopero generale contro il governo che è l'unica vera arma che il popolo ha per mettere fine alla macelleria sociale di Monti. Un avvenimento molto ricco di insegnamenti e utile per le future battaglie politiche e sindacali giacché nella rivolta operaia di Piazza Dello Statuto il PCI revisionista e i vertici della stessa CGIL per la prima volta nella storia del movimento operaio italiano furono scavalcati a sinistra e duramente criticati per il loro atteggiamento filo padronale e filo governativo dai lavoratori e dai giovani operai scesi in piazza contro la tracotanza dei padroni della Fiat amministrata da Vittorio Valletta. Il contesto politico ed economico Dietro il cosiddetto "miracolo economico" degli anni '50 e '60, in realtà si nasconde una situazione di sfruttamento bestiale da parte dei capitalisti italiani di milioni di operai. Molti di loro sono giovani emigrati dalle regioni del Sud Italia, in gran parte braccianti, contadini e manovali, attratti dalla possibilità di un riscatto sociale ed economico e strappati dalle loro terre con la speranza di trovare condizioni di vita e di lavoro migliori nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Torino passa da 650 mila abitanti a fine anni '50 a oltre un milione nel 1961 e il sogno di tanti emigranti si infrange nelle fatiscenti periferie delle grandi città del Nord, dove l'affitto di un tugurio o di un posto letto a ore nei casermoni dormitorio è un lusso che si possono permettere solo in pochi, e svanisce definitivamente dentro i capannoni delle grandi e piccole fabbriche dove i nuovi schiavi operai sono costretti in cambio di un salario da fame a stare per 52 ore a settimana legati mani e piedi alla catena di montaggio, senza diritti e tutele sindacali e chi osa protestare finisce nei reparti confino, schedato e licenziato senza pietà dai padroni che ricorrono sistematicamente all'arma della discriminazione politica, ideologica e sindacale per minacciare, intimidire e irreggimentare gli operai più combattivi e sindacalizzati. I bagliori della rivolta I primi bagliori della rivolta si hanno nella primavera del 1961 quando gli operai della Fiat iniziano a protestare contro l'imposizione delle 52 ore settimanali. Poco meno di un anno prima, a Genova, molti loro compagni lavoratori e operai avevano scritto un'altra pagina indimenticabile della storia del movimento operaio italiano prendendo parte nel luglio 1960 alla rivolta antifascista e anticapitalista dei "giovani dalle magliette a strisce" contro il governo clerico-fascista Tambroni costretto alle dimissioni. Mentre a Milano, in occasione del XXXIV Congresso nazionale del marzo 1961, il PSI porta a termine il suo tradimento e la sua parabola riformista annunciando la partecipazione al governo insieme alla DC che culminerà nel 1963 con la nascita del primo governo di "centro-sinistra organico" guidato da Aldo Moro e la conseguente scissione della corrente di sinistra che nel 1964 darà vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP). La lotta degli operai Fiat però non si ferma, si estende a macchia d'olio e coinvolge una dopo l'altra tutte le più importanti fabbriche del Nord: la Michelin, poi la Lancia, poi tutto il comparto della meccanica e infine, a partire dall'inizio dell'estate del 1962, si estende all'intero triangolo industriale di Torino-Milano-Genova con lotte durissime e scontri violentissimi con le "forze dell'ordine". Gli operai si ribellano ai ritmi infernali della catena di montaggio, ai regolamenti da caserma e ai vessatori provvedimenti disciplinari e chiedono l'aumento della paga oraria. A vuoto il sabotaggio di PCI e CGIL Fin da subito i lavoratori rifiutarono l'organizzazione e i metodi di lotta dei falsi partiti operai (PCI e PSI) ma anche della CGIL che dietro le quinte lavoravano per limitare la protesta a livello di singolo reparto o al massimo a una sola fabbrica per volta con scioperi a "singhiozzo" a "scacchiera" o "per categoria" col chiaro obiettivo di sfiancare i lavoratori, disarticolare la loro dirompente carica di lotta e soffocare la protesta entro le mura delle fabbriche. Mentre la stragrande maggioranza degli operai inneggia allo sciopero unitario e generale di tutti i lavoratori di tutte le categorie e preme per portare la protesta nelle piazze e saldarla alle lotte di altri settori della popolazione. Un sabotaggio politico e sindacale studiato a tavolino e attuato con particolare accanimento contro gli operai della Michelin e della Lancia, i quali per oltre cento giorni furono lasciati soli a lottare contro i soprusi e i ricatti dei padroni e la feroce repressione poliziesca. Un cordone sanitario per isolare e fare terra bruciata intorno alle avanguardie operaie che però non servì a piegare il coraggio e la determinazione dei lavoratori e in particolare degli operai dell'Alfa e della Siemens di Milano che nella primavera del 1962, al culmine di uno sciopero "articolato" che andava avanti ormai da due mesi, decisero per la prima volta di manifestare uniti e fuori dal luogo di lavoro rivendicando l'unificazione degli scioperi e l'unità di lotta e di azione di tutti i lavoratori in vista della stagione contrattuale per la scadenza d'autunno. Lo stesso succede con la lotta dei navalmeccanici di Genova, i quali, dopo sei settimane di sciopero durissimo, escono anche loro dalle fabbriche e dai cantieri e sfidano a viso aperto la tracotanza padronale e la violentissima repressione della polizia. E così, per la prima volta dopo dieci anni di "pace sociale" imposto dai vertici sindacali, la classe operaia riprende in mano il proprio destino e torna finalmente a scioperare. L'ultima manifestazione era del 1955. Poi più niente. La scintilla che innesca la lotta Nel giugno del 1962 sotto l'incalzare della protesta operaia i vertici sindacali confederali e collaborazionisti sono costretti ad anticipare l'avvio delle vertenze per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici; ciononostante vengono letteralmente travolti da una seconda ondata di scioperi decisi da un primo coordinamento nazionale. La forza e la potenza messe in campo dalla classe operaia spaventa a morte la classe dominante borghese, il governo e i padroni che cercavano di chiudere le vertenze firmando alla chetichella una trattativa separata con CISL, UIL e il sindacato giallo SIDA, messo su dalla Fiat. Il 7 luglio appena si sparge la notizia della firma, tutta la Torino proletaria scende in piazza e assalta la sede della UIL in Piazza Dello Statuto per protestare contro l'accordo separato. Davanti ai cancelli delle fabbriche si organizzano i picchetti e i dirigenti sindacali vengono duramente contestati e presi letteralmente a calci nel sedere. Per tre giorni la piazza è teatro di violenti scontri fra manifestanti e "forze dell'ordine". Il sindacato e lo stesso PCI vengono scavalcati a sinistra dai lavoratori e dai giovani operai in lotta che rispondono con la violenza di massa anticapitalista alla spietata caccia all'uomo scatenata dalla polizia che mette a ferro e fuoco la piazza. Gli stessi dirigenti del PCI e dei sindacati confederali, fra cui Giancarlo Pajetta e Sergio Garavini, cercano di convincere gli operai a desistere dalla protesta ma vengono duramente contestati e presi a sassate dai manifestanti. Tant'è che il PCI e il suo organo di stampa si schierano apertamente dalla parte della Fiat e dei padroni e invocano "unità e disciplina democratica" (cfr. comunicato della Camera confederale del 7 luglio) contro i "fascisti e i provocatori infiltrati" nel movimento. L'Unità del 9 luglio liquida la rivolta operaia di Piazza Dello Statuto come "tentativi teppistici e provocatori", e bolla i manifestanti come "elementi incontrollati ed esasperati", "piccoli gruppi di irresponsabili", "giovani scalmanati", "anarchici, internazionalisti". Per porre fine alla rivolta e sedare la rivolta nel sangue il 9 luglio entra in azione il famigerato Battaglione Padova della Celere che pesta a sangue centinaia di lavoratori e effettua oltre 1.200 fermi e 82 arresti con conseguenti denunce, processi e licenziamenti di massa immediati. Le fiamme furono spente, ma il fuoco continuerà ad ardere sotto la cenere, per riemergere sei anni dopo. A dimostrazione che la lotta di classe è inestinguibile, e nessuno la può arrestare per sempre. Non è riuscito a Valletta, non vi riuscirà il nuovo Valletta Marchionne. E nemmeno il governo Monti, pur essendo sostenuto dalla destra e da gran parte della "sinistra" borghese, con alla testa il PD erede del PCI revisionista e della DC. Continuiamo a premere sui sindacati perché proclamino subito uno sciopero generale di 8 ore con manifestazione nazionale a Roma per bloccare i tagli e mandare a casa il governo Monti. 11 luglio 2012 |