|
Per le dimissioni di Mubarak e per la libertà
Irresistibile avanzata della rivolta del popolo egiziano
2 milioni in piazza al Cairo |
Una folla immensa, forse due milioni di manifestanti, in piazza al Cairo, e un milione ad Alessandria, l'1 di febbraio hanno dato un segnale fortissimo della volontà del popolo egiziano di ottenere le dimissioni del presidente Hosni Mubarak e del suo nuovo governo, per la libertà; di fatto hanno dato il via al conto alla rovescia per la fine del suo trentennale regime.
I manifestanti hanno riempito la grande piazza Tahrir e occupato anche le vie e i ponti che collegano la zona con i quartieri confinanti. Altre partecipate manifestazioni si svolgevano in molte città, a partire da Alessandria dove oltre 200 mila manifestanti erano stati bloccati dalla polizia mentre erano in procinto di partire per la capitale e hanno dato vita a un corteo nella città che si è ingrossato fino a contare un milione di persone. Altre decine di migliaia manifestavano a Suez, Ismailia e nelle città del Delta del Nilo. "Mubarak sveglia, oggi è l'ultimo giorno", gridavano i manifestanti ad Alessandria; "Se ne va lui, non noi", gridavano al Cairo.
I partiti di opposizione rilanciavano in piazza la loro richiesta delle dimissioni di Mubarak e la formazione di un governo di salvezza nazionale. La richiesta era stata formalizzata in una riunione cui avevano partecipato il maggior partito di opposizione, l'organizzazione islamica dei Fratelli musulmani, rappresentanti di Al Wafd (liberaldemocratici), di Al Nasri (nazionalisti), del Movimento Nazionale per il Cambiamento e di alTajamud (che raccoglie varie forze democratiche) e l'associazione per il Cambiamento di Mohammed el-Baradei, l'ex responsabile dell'Agenzia per l'energia atomica dell'Onu, che aveva assunto il ruolo di portavoce.
La rivolta del popolo egiziano riceveva un forte appoggio dall'Iran. Nel giorno in cui cominciavano a Teheran le celebrazioni per il 32º anniversario della rivoluzione iraniana, la televisione di Stato ritrasmetteva il discorso del fondatore della Repubblica islamica, l'ayatollah Ruhollah Khomeini, che invitava il popolo egiziano a sollevarsi contro i suoi governanti: "Il popolo egiziano deve sollevarsi e gettare fuori dalla regione i rifiuti dell'arroganza globale" (gli Usa). Il ministro degli Esteri di Teheran, Ali Akbar Salehi, affermava che "le proteste e i movimenti popolari nei paesi del Nord Africa, tra cui l'Egitto, dimostrano che è necessario riorganizzare la regione eliminando le leggi dittatoriali. I casi di Egitto e Tunisia provano che è finita l'era del controllo della regione da parte delle potenze arroganti e che la gente sta provando a decidere da sola il proprio destino".
Era quello che chiedevano più di 100 mila dimostranti il 31 gennaio in piazza Tahrir al Cairo, nel settimo giorno consecutivo di proteste, invocando uno "sciopero generale" a tempo indeterminato fino alla caduta di Mubarak. Il presidente annunciava rimpasti nel nuovo governo e lanciava un appello al dialogo con le opposizioni. Un tentativo di giocare la carta della "transizione ordinata", richiesto da Usa e Ue, preoccupate, come sosteneva il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, che non si arrivasse a "una soluzione che porti l'islamismo radicale al potere". Solo cinque giorni prima Frattini si era augurato che "Mubarak continui, come sempre ha fatto, a governare con saggezza e lungimiranza" perché "l'Egitto è punto di riferimento per il processo di pace che non può venire meno" e per scongiurare una "deriva fondamentalista". Un appoggio all'alleato in pericolo che stava per essere travolto dalla protesta di piazza e già mollato anche dall'alleato americano, dopo che fonti della Casa Bianca riferivano che l'amministrazione Usa stava facendo pressione su Mubarak perché non si candidasse alle elezioni presidenziali già in programma per settembre del 2011, quando sarebbe scaduto il sesto mandato presidenziale. E secondo documenti pubblicati da Wikileaks, sono almeno tre anni che gli Usa pensano a un piano per favorire un "cambio di regime" al Cairo, il loro cavallo Mubarak era oramai azzoppato, indebolito dallo scontro coi vertici militari che ostacolavano il suo progetto di cedere la carica al figlio Gamal. Significativo l'annuncio del 31 gennaio, alla vigilia delle grandi manifestazioni dell'1 febbraio, col quale i militari escludevano il ricorso alla violenza contro i manifestanti definendo legittime le loro richieste.
La farsa delle elezioni politiche del novembre scorso erano state un primo segnale delle debolezze del regime. Nei due turni del 28 novembre e del 5 dicembre il Partito nazionaldemocratico (Pnd) del presidente Mubarak si era aggiudicato 439 dei 508 seggi della camera bassa. Agli indipendenti ne erano andati 48, 8 al Wafd e solo uno ai Fratelli Musulmani. Il Wafd e i Fratelli Musulmani avevano boicottato il secondo turno elettorale per protesta contro i brogli del regime e gli arresti di loro candidati effettuati durante la campagna elettorale. Al voto avevano partecipato solo un terzo degli iscritti alle liste elettorali, secondo le organizzazioni umanitarie che operano nel paese la percentuale dei votanti non avrebbe superato il 10%. Una chiara delegittimazione di Mubarak e del suo regime. Che subiva il primo pesante scossone per le manifestazioni che si svolgevano al Cairo il 25 gennaio quando alcune decine di migliaia di persone scendevano in piazza per chiedere riforme politiche e sociali, sull'esempio della rivolta della Tunisia.
La polizia caricava e disperdeva la manifestazione che si teneva in piazza Tahrir ma la scintilla era scoccata e altre proteste si svolgevano nei quartieri periferici della capitale e dilagavano nei giorni seguenti da Suez ad Alessandria, dalle città del delta del Nilo ai villaggi lungo il canale di Suez e nel Sinai. Un susseguirsi di violente rivolte popolari nate dalla condizione di povertà che colpisce larghi strati della popolazione e dalla disoccupazione soprattutto giovanile. Pane e lavoro le prime parole d'ordine, libertà e dimissioni del presidente quelle immediatamente successive.
In alcuni casi come a Suez la popolazione sfidava il coprifuoco, subito imposto dal regime, e assaltava la sede del partito di Mubarak, il comune, le questure e le proprietà dei capitalisti pescecani amici del regime.
La rivolta divampava il 28 gennaio al Cairo dove i dimostranti tentavano di assaltare le sedi dei ministeri, respinti dalla polizia che sparava con le armi. Come nelle altre città dove la protesta non si fermava davanti alle armi spianate delle polizia e le migliaia di arresti. Secondo un bilancio provvisorio stilato dall'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, i morti sono almeno 300 e oltre 3 mila i feriti.
La sera del 28 gennaio, con un intervento televisivo, il presidente annunciava le dimissioni del governo e la nomina di un nuovo esecutivo "che varerà nuove misure per la libertà e la democrazia". Il 29 gennaio nominava premier Ahmed Shafiqm, ministro uscente dell'aviazione civile, e nella carica di vicepresidente il capo dei servizi segreti, il generale Omar Suleiman, un uomo apprezzato dagli Usa e da Israele, e in particolare dai servizi dei due paesi, Cia e Mossad. L'uomo di fiducia di Mubarak nella gestione dei rapporti riservati cogli alleati ma anche un pretendente alla sua successione. Che spera di potersi giocare con l'altro favorito delle potenze imperialiste, Baradei. Una partita tutt'ora aperta.
Le mosse del presidente non scalfivano la determinazione della popolazione che continuava a scendere in piazza e a chiedere la fine del suo regime. La rivolta popolare cresceva di intensità fino alle manifestazioni oceaniche dell'1 febbraio.
2 febbraio 2011
|