Nella Cina capitalista In rivolta gli operai supersfruttati del Guangdong Chiedono aumenti salariali e diritti Un recente documento della Banca centrale cinese registrava fra le altre che le proteste di massa erano cresciute negli ultimi dieci anni da 9 a 180 mila. Stime ufficiali a parte, è evidente la crescita delle rivolte operaie e popolari nella Cina capitalista che si registrano sempre più numerose da quelle del Nord, nella Mongolia Interna, all'Ovest financo nel Chongqing, considerata la regione all'avanguardia nella produzione e sviluppo dell'alta tecnologia. Fino al Guangdong, nel centro mondiale di produzione tessile, dove sono in rivolta gli operai supersfruttati e licenziati dopo che a causa della crisi economica, nel principale polo industriale della città di Zengcheng ha chiuso il 34% delle aziende. Nella regione considerata il "motore del Sud" del cosiddetto miracolo economico cinese, per la sua crescita negli ultimi cinque anni alla media record del 12,4% e che produce l'11% del prodotto interno (pil) del paese e un terzo delle esportazioni, la campagna lanciata a inizio anno dal governatore dietro lo slogan del "Felice Guangdong" è stata smascherata in breve tempo dalle rivolte operaie in decine di distretti industriali. Rivolte e scioperi allargatisi a macchia d'olio in molte altre regioni. Tra le notizie più recenti si ha quella dei 4 mila operai della fabbrica di borse di una multinazionale sudcoreana a Hualong che sono scesi in sciopero a oltranza il 20 giugno chiedendo aumenti dei salari per far fronte ai forti rincari dei prezzi di generi di prima necessità, rispetto e migliori condizioni di lavoro. In prima fila ci sono le operaie, l'80% degli addetti, che hanno anche bloccato il traffico attorno alla fabbrica per protestare contro turni di lavoro di 12 ore, con la possibilità soltanto di andare al bagno una volta ogni 4 ore, pagati solo 1.600 yuan mensili. Gli operai chiedono aumenti di almeno 200 yuan al mese per una giornata lavorativa di 8 ore e di essere trattati "come esseri umani". Nella settimana precedente erano scesi in lotta i circa 2 mila operai di una fabbrica giapponese a Changan, nel Dongguan, contro l'imposizione della direzione aziendale di effettuare 5 ore di straordinario obbligatorio e non pagato. Sono gli ultimi episodi assurti alle cronache di una disumana condizione di lavoro e di vita che accomuna i 540 milioni di operai cinesi e i 280 milioni di migranti interni in una condizione di quasi schiavitù che ha generato il "miracolo" economico della Cina capitalista. Lo scorso 18 ottobre il Plenum del CC del Partito revisionista cinese, borghese e fascista ha individuato nel cinquantasettenne vice premier Xi Jinping, chiamato il "principino", il futuro presidente della Cina, colui che avrà il compito di governare lo sviluppo economico capitalista cinese, quello fissato nel piano quinquennale 2011-2015 che dovrebbe orientare l'economia del paese verso lo sviluppo interno più che verso l'esportazione. Con l'obiettivo di "sostenere domanda e consumi interni, aumentare i redditi e sviluppare la società in modo inclusivo", ossia tentare di "ridurre le distanze" tra i ricchi e i milioni di contadini e operai che vivono in condizioni disumane. Tentare cioè di garantire la "stabilità" del regime revisionista, capitalista e fascista di Pechino disinnescando la miscela esplosiva formata da operai supersfruttati, contadini espropriati delle loro terre, disoccupati, migranti senza diritti, anziani senza assistenza, gruppi etnici colonizzati e oppositori incarcerati. Che genera un numero crescente di rivolte. 29 giugno 2011 |