La scure del governo sull'università e la ricerca pubbliche Mentre il ministro della guerra Ignazio La Russa non perde occasione per richiedere l'aumento delle spese militari per dare lustro all'imperialismo italiano nel mondo, a guidare i carri armati governativi che fanno terra bruciata del welfare troviamo un quadrumvirato composto dai gerarchi Tremonti, Gelmini, Sacconi e Brunetta. Il loro nome ricorre nelle lunga raffica di provvedimenti legislativi che, tra tagli di ogni tipo e controriforme strutturali di ispirazione piduista, sta demolendo dalle fondamenta l'istruzione pubblica nel nostro Paese e più in generale si stanno abbattendo su tutti i lavoratori del comparto del pubblico impiego, scuola, sanità, università e ricerca in testa. Tagli selvaggi Partiamo dalla manovra Tremonti, approvata dal Consiglio dei ministri e firmata da Vittorio Emanuele Napolitano. Questa manovra è una micidiale tenaglia. Innanzitutto, dimezzando i fondi statali, punta a costringere le università e gli enti di ricerca pubblici, soprattutto del Sud, a operare licenziamenti di massa tra i lavoratori: si tratta di 1.000 precari della ricerca e 26.500 docenti precari dell'università, che vanno ad affiancare, sul lastrico, gli oltre 20 mila insegnati e gli altri 45 mila precari del pubblico impiego (tra cui circa 15mila Ata) che non hanno avuto o non avranno riconfermato il contratto. L'altro braccio della tenaglia è il blocco del turn-over, ossia la mancata sostituzione dei lavoratori che vanno in pensione, che si prevede produrrà una perdita complessiva di 90 mila posti di lavoro. Una cifra sottostimata alla quale vanno aggiunti i licenziamenti derivanti dalla cancellazione annunciata da Tremonti di ben 232 "enti inutili", tra cui moltissimi istituti di ricerca pubblici! La manovra finanziaria di lacrime e sangue prevede anche, oltre al congelamento del rinnovo dei contratti nazionali di lavoro 2010-2013 e del salario accessorio persino per i contratti già sottoscritti, oltre al blocco della contrattazione integrativa, una nuova stretta sulle pensioni: innalza l'età pensionabile a 65 anni per le lavoratrici del pubblico impiego e riduce per tutti i lavoratori pubblici, privati e autonomi le finestre per andare in pensione sia di anzianità sia di vecchiaia da quattro a una sola. Il che comporta un ritardo fino ad un anno ed oltre dell'uscita dal lavoro e per iniziare a riscuotere l'agognata pensione. Infine il taglio delle risorse alle Regioni di ben 10 miliardi nel biennio (5 miliardi nel 2010 e altri 5 nel 2011) che abbinata alle controriforme federaliste che spezzettano l'Italia, avrà effetti devastanti sul quel che resta del "diritto allo studio" nel Mezzogiorno. Spianata la strada alla controriforma Gelmini A questi provvedimenti di esplicita macelleria sociale vanno aggiunti quelli già in vigore che prendono di mira i compiti e i doveri dello Stato nei confronti dell'istruzione universitaria, come la direttiva ministeriale prebalneare del 24 luglio scorso con la quale il ministro della d-istruzione Gelmini ha reso operativi i nuovi meccanismi di valutazione e di finanziamento del sistema universitario italiano sulla base del decreto che porta il suo nome, approvato con il voto di fiducia dal parlamento il 7 gennaio 2009. Questo decreto legge, che riprende un progetto dell'ex-ministro del governo Prodi Mussi, ha imposto al mondo universitario in rivolta, i nuovi criteri capestro di distribuzione dei finanziamenti statali, come è noto, già abbondantemente falcidiati a partire dalla legge Ruberti del 1990 (autonomia universitaria) fino alla infame legge 133 Gelmini-Tremonti del 2008 che ha tagliato un miliardo e 300 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). Secondo alcune stime, a causa di questa direttiva, al sistema universitario pubblico italiano verrà tagliato, da qui al 2013, il 67% del suo budget reale, cioè, assegni fissi a parte, ciò che spende per ricerca, didattica, edilizia, internazionalizzazione. Il ministro Gelmini ha annunciato che "nel prossimo anno accademico i corsi di laurea si ridurranno del 20%", nonostante una grande sforbiciata sia già stata messa in atto. In due anni le università statali hanno già eliminato il 9,1% dei corsi di laurea, in maggioranza lauree triennali - di serie B ma certamente più accessibili per gli studenti-lavoratori. L'ateneo della Sapienza ha tagliato 46 corsi di laurea. Siena 34. La Federico II di Napoli ha cancellato 9 corsi di laurea e ora si appresta a tagliare oltre 100 insegnamenti. Ancona ha soppresso 10 corsi e 100 insegnamenti. Messina si è privata di una facoltà, quella di Statistica, e di 15 corsi di laurea. Per l'Orientale di Napoli addirittura si prevede la perdita di circa la metà dei corsi di laurea per evitare la chiusura dell'Ateneo, mentre Firenze e Genova hanno previsto un taglio dell'offerta rispettivamente del 20 e 15 per cento. Il PMLI, come gran parte del movimento in difesa dell'università pubblica, ha già invocato per tempo le dimissioni immediate del ministro per ottenere la revoca dei tagli e l'abrogazione di tutte queste normative che tradiscono l'obiettivo del governo: sfoltire drasticamente e privatizzare l'università pubblica del nostro Paese, privilegiando nell'accesso ai fondi statali gli atenei più ricchi, privati, privatizzati o in via di privatizzazione, considerati di serie A, e definiti "d'èlite" o "di eccellenza", abbandonare al proprio destino quelli più poveri e meno inclini ad aprire le porte ai privati e a trasformarsi in Fondazioni di diritto privato (possibilità prevista già nella manovra triennale varata dal governo nel 2008), considerati di "scarsa qualità", ossia di serie B. Un altro obiettivo è quello di declassare, affossare e abbandonare definitivamente l'intero sistema formativo del Mezzogiorno come prescrivono i fascio-leghisti del carroccio. I nuovi criteri di valutazione delle università penalizzano infatti sopratutto gli atenei già poveri del Sud sulla base di una inaccettabile "lista nera delle università", che comprende quasi tutte le università del Sud, stilata dalla neonata "Agenzia di valutazione del sistema universitario". Un'agenzia a cui non va data alcuna legittimazione in quanto ha il solo scopo di tagliare risorse, personale, corsi di laurea e facoltà universitarie. Occorrono invece più fondi per studenti e atenei, a cominciare proprio dal massacrato Mezzogiorno, che ha l'urgenza di fermare la nuova ondata di emigrazione in massa, e la "fuga di cervelli", ossia l'emigrazione della parte più giovane e qualificata professionalmente della popolazione. In questo contesto si inserisce il pezzo grosso della controriforma dell'università, il famigerato ddl Gelmini n. 1905, approvato dal Consiglio dei gerarchi, nel novembre 2009, ed emendato dalle commissioni cultura di Camera e Senato. Come hanno evidenziato le grandi mobilitazioni di protesta che si susseguono dallo scorso autunno questa legge va a braccetto con quella altrettanto infame che ha instaurato la scuola classista, aziendalista gerarchizzata, meritocratica e razzista del regime neofascista (legge Aprea). Con esso l'Italia dice addio all'istruzione pubblica per fare posto al modello piduista e gentiliano di università meritocratica e manageriale che estromette i figli della classe operaia e delle masse mentre assicura larga presenza e pieni poteri ai privati nei Consigli di amministrazione (Cda) prendendo a prestito il modello di governance vigente nelle università private, alle quali non a caso non vengono mai lesinati, in barba alla Costituzione, i finanziamenti pubblici . Questo modello prevede - oltre all'esclusione del personale tecnico-amministrativo da ogni forma di partecipazione agli organi di governo, insieme ai rappresentanti degli studenti, in assoluta minoranza e privi di potere decisionale - la legalizzazione e generalizzazione della deregulation e del precariato per i ricercatori, che non solo non ottengono il riconoscimento della docenza, ma vengono ancora di più messi sotto ricatto da contratti a termine che la massimo prevedono il "tempo determinato". In questo modo, in linea con le controriforme del mercato del lavoro (leggi Treu e Biagi) e con il nuovo modello contrattuale padronale e corporativo frutto dell'accordo separato tra governo, Confindustria e vertici sindacali collaborazionisti, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici delle università ed enti di ricerca viene di fatto privatizzato ed equiparato a quello dei dipendenti privati, ossia fondato sulla "chiamata diretta", fonte del più sfacciato clientelismo e nepotismo, anche di stampo mafioso. Nel segno dell'università del regime neofascista Che tipo di università uscirà fuori da queste leggi lo si può immaginare se consideriamo anche le leggi che portano il nome dei ministri Sacconi e Brunetta. Il primo, il 27 febbraio 2009 ha ottenuto dal governo del neoduce Berlusconi all'unanimità, l'approvazione del disegno di legge delega che porta il suo nome da titolo: "Per la regolamentazione e prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro con riferimento alla libera circolazione delle persone". Si tratta di un attacco violentissimo e senza precedenti alla libertà di sciopero, a un diritto costituzionalmente garantito, che nega concretamente alle lavoratrici e ai lavoratori la possibilità di dissentire, di protestare, di rivendicare con efficacia i loro diritti. Da par suo Brunetta è il redattore del decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri l'8 maggio 2009 che dà attuazione alla delega contenuta nella legge n.15/2009 in materia di "ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficenza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni". Con questo decreto, nato sull'onda della crociata mediatica contro i cosiddetti "fannulloni", e varato senza neanche consultare i sindacati, si vuole trasformare in una caserma il pubblico impiego. Contiene un giro di vite sui provvedimenti disciplinari e sulle sanzioni, compreso il licenziamento e il carcere. Introduce per la prima volta la meritocrazia e le gabbie salariali (il premio di produttività intero lo riceverà infatti solo il 25% del personale più in alto nella classifica annuale stilata dall'ente), incrementa la mobilità forzata del personale. Dulcis in fundo la "Carta dei doveri", elaborata dallo stesso ministro Brunetta, che ambisce a militarizzare i dipendenti pubblici attraverso un "giuramento di fedeltà" alla terza repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e guerrafondaia. Esattamente come avveniva ai tempi di Mussolini, quando chi voleva entrare nella pubblica amministrazione doveva giurare fedeltà al fascismo e avere la tessera del partito fascista e quanti rifiutarono di iscriversi furono immediatamente licenziati. W lo sciopero generale di 8 ore con manifestazione nazionale a Roma per difendere i diritti dei lavoratori, per abbattere il governo del neoduce Berlusconi, il governo della macelleria sociale, del bavaglio ai media e della restaurazione del fascismo! 1 giugno 2010 |