Il Senato vota per il presidenzialismo. Solo 5 "no" nel PD Un altro passo verso la sovversione da destra della costituzione Napolitano: "Non lasciamoci fermare dai fuochi di sbarramento" La via maestra è il socialismo e il potere del proletariato Il 23 ottobre il Senato ha approvato in seconda lettura il disegno di legge costituzionale che spiana il terreno all'attuazione in tempi stretti della controriforma neofascista e presidenzialista della Costituzione, che cambia la forma dello Stato e del governo e riduce i poteri del parlamento manomettendo quasi tutta la seconda parte e consentendo incursioni anche nella prima parte della Carta del 1948. Il disegno di legge (ddl) governativo 813-B, che ora attende solo la definitiva approvazione della Camera entro dicembre - l'ultima della doppia lettura delle Camere a distanza di tre mesi prevista dalla procedura di garanzia fissata dall'articolo 138 della Costituzione per le modifiche costituzionali - è concepito infatti come un vero e proprio grimaldello per scardinare da destra la Costituzione. E per arrivarci il più rapidamente possibile rimuovendo dal terreno i due ostacoli più ingombranti. Il primo è proprio l'articolo 138, voluto dai costituenti come garanzia contro possibili forzature e colpi di mano anticostituzionali della maggioranza, che viene opportunamente depotenziato dimezzando da tre mesi a 45 giorni il tempo di "riflessione" che deve intercorrere tra la prima e la seconda lettura delle due Camere. Il secondo è la sovranità del parlamento sulla materia costituzionale, incluso il diritto di tutti gli eletti di discutere e votare in piena libertà e con i tempi necessari su tale delicata materia; sovranità e diritto che questo provvedimento ad hoc invece calpesta e sottomette alla volontà del governo e della maggioranza che lo sostiene. È a questo infatti che mira l'istituzione della commissione bicamerale di 20 senatori, 20 deputati più i due presidenti delle rispettive commissioni Affari costituzionali, nella fattispecie la PD Finocchiaro e il berlusconiano Sisto, fedeli cani da guardia delle "larghe intese". 42 membri scelti fra l'altro non in base ai voti ottenuti dai partiti, il che già esclude una parte importante del Paese rappresentata da quasi 13 milioni di astensionisti, ma addirittura in base ai seggi assegnati dal "porcellum" con l'arbitrario e antidemocratico premio di maggioranza. Commissione alla quale spetterà di fatto in via esclusiva di discutere e approvare il disegno di controriforma costituzionale, non elaborato in parlamento ma precostituito direttamente dal governo, sulla base delle proposte e delle linee guida elaborate dalla commissione dei 35 "saggi". Scelti a loro volta dal governo e da Napolitano tra i giuristi e i costituzionalisti più legati ai partiti della maggioranza, cinque dei quali figurano addirittura nell'inchiesta della procura di Bari sui concorsi truccati nelle Università. Asse PD-Lega per salvare le "riforme" In conseguenza di tutto ciò (e grazie anche all'articolo 138 dimezzato e ai regolamenti parlamentari ordinari manomessi per l'occasione, con limitazioni alla facoltà di presentare emendamenti e il contingentamento dei tempi in aula, per rientrare a tutti i costi nel "cronoprogramma" fissato da Napolitano che prevede l'approvazione finale della controriforma entro il 2015), al parlamento non resterà che il "potere" di ratificare una "riforma" già preconfezionata dal governo e da Napolitano e rigidamente blindata nella commissione dei 42 saldamente presidiata dalla maggioranza delle "larghe intese". Cioè dal PD e dal PDL, con l'eventuale apporto nei frangenti critici delle rispettive ruote di scorta rappresentate da SEL e Lega. Un esempio eloquente di ciò lo si è avuto proprio il 23 ottobre al Senato, con la votazione che ha visto approvare il ddl con 218 voti a favore, solo 4 in più della maggioranza di due terzi a cui puntava il governo (che sulla carta contava su 239 voti) per evitare il referendum confermativo previsto dall'articolo 138. Quorum che non avrebbe invece raggiunto se non fossero arrivati provvidenzialmente i voti della Lega a salvarlo, vantandosi col suo capogruppo Bitonci di averlo fatto per "salvare le riforme, non il governo Letta". E a mancare non erano stati certo i voti del PD, dato che solo cinque dei suoi senatori hanno avuto il "coraggio" di dissociarsi dagli ordini di scuderia: Casson, che si è astenuto (l'astensione in Senato vale come voto contrario), e i senatori Mineo, Tocci, Amati e Turano, che hanno scelto la via più opportunista della non partecipazione al voto. Ai quali, ma solo per carità di patria, si possono aggiungere altri dieci, tra cui la Puppato, che pur votando sì al ddl hanno firmato un documento in cui prendono le distanze dal cambiamento della forma di governo da parlamentare in semipresidenzialismo o premierato. A mancare e a far correre al governo il rischio di una nuova crisi sono stati invece, tra astensioni e assenze dall'aula, proprio i voti del PDL, tutti ascrivibili ai cosiddetti "falchi" berlusconiani, imbeccati dal neoduce in persona che non si è nemmeno presentato in aula, per lanciare un eloquente avvertimento a Letta e al "traditore" Quagliariello, ministro delle Riforme costituzionali, e a tutta l'ala "governista" del suo stesso partito capeggiata da Alfano. Un agguato, quello dei "lealisti" berlusconiani al governo, del tutto strumentale quindi, e non certo perché contrari alla controriforma neofascista e presidenzialista della Costituzione, alla quale semmai rimproverano di non essere abbastanza "coraggiosa" e di lasciar fuori il tema della giustizia. Cosa non vera, perché essa prevede che si possa intervenire anche su questo tema ove sia "connesso" con le altre "riforme" approvate. E questo nonostante che Quagliariello, nell'illustrare in aula le linee guida della controriforma, li avesse ampiamente rassicurati informando di aver "avviato i contatti col ministro della Giustizia per un tavolo di coordinamento che conduca il governo a sottoporre al parlamento proposte di riforma, sulla base delle indicazioni formulate dalla commissione dei 35 saggi". Che prevedono tra l'altro "riforme" come la legge bavaglio sulle intercettazioni, drastiche limitazioni ai poteri di inchiesta dei pm e una stretta sulla responsabilità civile dei giudici, esattamente come chiede Berlusconi da anni. Ancora interventi a gamba tesa di Napolitano Proprio perché consapevole dell'instabilità della maggioranza, strettamente connessa al tentativo del delinquente n. 1 di evitare la decadenza da senatore e ottenere un salvacondotto, nonché alle faide interne al PD in vista del congresso, Napolitano era intervenuto a gamba tesa alla vigilia del voto al Senato, minacciando ancora una volta le sue dimissioni in caso qualcosa fosse andato storto sì da compromettere il suo "cronoprogramma" per le "riforme costituzionali": "Al cammino delle riforme ho legato il mio impegno all'atto di una non ricercata rielezione a presidente. Lo porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo", aveva avvertito il nuovo Vittorio Emanuele III. Rimarcando che "occorre andare avanti con le riforme istituzionali come quella elettorale e quella della seconda parte della Costituzione". E appena incassato il sì del Senato si è subito attivato per sollecitare anche l'altra "riforma", quella elettorale, accampando come motivo di urgenza la sentenza della Consulta sull'ammissibilità dell'incostituzionalità del "porcellum" attesa per il 3 dicembre, sottolineando davanti ai sindaci dell'Anci riuniti a Firenze che su questo "ineludibile" tema non è ammissibile che "il parlamento naufraghi ancora nelle contrapposizioni e nell'inconcludenza": "Non lasciamoci fermare da alcun fuoco di sbarramento", tuonava il capo dello Stato strigliando partiti e parlamento, e senza por tempo in mezzo, con una procedura presidenzialista inaudita e senza precedenti, se non fosse ormai diventata una sua prassi quotidiana, convocava al Quirinale la Finocchiaro e i rappresentanti di PD e PDL per esortarli a mettersi d'accordo su una modifica anche parziale al "porcellum". Tanto da suscitare le veementi proteste dei partiti non invitati, in particolare della Lega e del M5S, che con Grillo arrivava a chiederne l'impeachment. Una mossa arrogante e spericolata, quella del rinnegato del Quirinale, fatta anche per prevenire e stoppare qualsiasi tentazione del PD, che alla Camera avrebbe i numeri per farlo, di cancellare unilateralmente il "porcellum", mettendo così a rischio la sopravvivenza delle "larghe intese" e del governo, e insieme ad essa anche quella dell'intero impianto della "riforma" costituzionale. La vera via maestra Di fronte a tali e così gravi atti appaiono del tutto velleitarie e fuori tempo, come chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati, le proteste di chi, come i firmatari dell'appello della "Via Maestra" in difesa della Costituzione, Rodotà, Zagrebelsky, Landini, Carlassare e Don Ciotti, chiedono che il parlamento approvi il ddl costituzionale che deroga all'articolo 138 rinunciando alla maggioranza dei due terzi, in modo da permettere ai cittadini di esprimersi col referendum. Non solo perché alla Camera PD e PDL dispongono ampiamente e ancor più che al Senato di una tale maggioranza; ma anche perché le loro posizioni sono viziate da un equivoco di fondo, in quanto non si oppongono alla controriforma in blocco, ma ne salvano anzi una parte essenziale, quella dell'abolizione del bicameralismo e della riduzione dei parlamentari, che è comunque funzionale oggettivamente all'indebolimento della repubblica parlamentare e della sua trasformazione in repubblica presidenziale, che pure affermano di non volere. In ogni caso la via maestra non è quella della "difesa e dell'applicazione" della Costituzione borghese del 1948, innanzi tutto perché al fondo essa rappresenta ed è modellata solo sui principi liberali e gli interessi della classe dominante borghese e del capitalismo. E comunque perché ormai non esiste più, essendo stata demolita e sostituita nel corso degli ultimi decenni da una Costituzione materiale neofascista, presidenzialista, federalista, razzista e interventista. La vera via maestra non può essere, pertanto, che quella del socialismo e del potere del proletariato, la sola capace di creare una nuova società senza più sfruttamento, disoccupazione, miseria, disuguaglianze territoriali e di sesso, ingiustizia sociale per gli operai, i giovani, le donne, gli anziani, i migranti e tutte le masse lavoratrici e popolari. 30 ottobre 20113 |