Siria Battaglia ad Aleppo Appello per una soluzione politica di un gruppo di oppositori al regime Il regime di Assad assicurava di aver ripreso il controllo della capitale Damasco dopo l'attacco condotto il 18 luglio dalla resistenza che aveva decapitato il vertice della sicurezza governativa e concentrava le forze per recuperare il controllo di Aleppo, la seconda città siriana e il più importante centro commerciale. La città, che si trova nel nord del paese non lontano dal confine con la Turchia, era rimasta finora relativamente al margine degli scontri dei mesi passati. Dopo l'attacco condotto a Damasco, le formazioni armate dell'opposizione, dell'Esercito Siriano Libero (Els) finanziato dall'Arabia saudita e appoggiato dalla Turchia, erano entrate in alcuni quartieri di Aleppo e avevano attaccato alcune caserme dell'esercito. Dal 28 luglio l'esercito governativo lanciava ripetuti attacchi con i carriarmati e con gli elicotteri contro le zone occupate dall'opposizione armata. Nei giorni successivi si registravano combattimenti strada per strada con un numero imprecisato di morti. Secondo fonti Onu le vittime civili nella prima settimana di scontri sarebbero quasi 200 mentre almeno 200 mila persone sono fuggite dalla città: molti si sono rifugiati nelle campagne, almeno 40 mila quelli che hanno varcato il confine con la Turchia. Anche la Giordania ha aperto un campo profughi vicino al confine con la Siria dove, secondo Amman, ogni giorno arrivano dalle mille alle duemila persone che vanno ad aggiungersi alle oltre 140.000 già presenti sul suo territorio. La battaglia nel nord del paese è stata lanciata dall'opposizione armata al regime con l'obiettivo di prendere il controllo di una zona da proclamare "territorio liberato". Una tattica appoggiata dagli Usa che il 24 luglio, attraverso il segretario di Stato Hillary Clinton, affermava che "dobbiamo lavorare a stretto contatto con l'opposizione, perché questi santuari saranno la base per una ulteriore espansione". I paesi imperialisti e i paesi arabi reazionari non possono intervenire direttamente nel paese, come nel caso della Libia, per l'opposizione questa volta decisa della concorrente Russia che a sua volta non vuol perdere la posizione di vantaggio che ha nei rapporti con l'attuale regime di Damasco e essere sbattuta fuori dal paese. L'ingerenza viaggia sinora sul sostegno a una parte delle opposizioni siriane per conquistarsi intanto una base di appoggio in una parte del paese. Ipocrita quanto scrive la Casa Bianca nel comunicato rilasciato il 30 luglio al termine del colloquio telefonico tra il presidente americano Obama e il premier turco Erdogan: si afferma che Stati Uniti e Turchia "coordineranno gli sforzi per accelerare la transizione politica in Siria" e che la transizione "dovrà comprendere la partenza di Bashar al-Assad e rispondere alle legittime aspirazioni del popolo siriano". O meglio alle loro aspirazioni imperialiste. Come dovrebbe rispondere a quelle della concorrente Russia, sottolineate dal ministro degli esteri russo Serghei Lavrov che da Mosca affermava che il suo governo "accetterà l'uscita di Assad dal potere ma in una transizione decisa dai siriani, non da forze esterne". La transizione del potere in Siria dovrebbe essere affidata a un alto consiglio della difesa, incaricato di nominare un consiglio presidenziale composto da sei militari e sei civili, affermava la bozza presentata il 30 luglio dall'Els. Il consiglio di difesa dovrebbe includere "tutti i capi dei consigli militari delle città e delle province siriane così come gli alti ufficiali disertori e altre figure che hanno contribuito alla rivoluzione". La proposta chiamava alla collaborazione tutte le maggiori forze di opposizione, alle quali riserva però compiti secondari, riservando all'Els la guida di due ministeri chiave, quelli della Difesa e dell'Interno. Sarebbe questa la transizione "sicura ed equilibrata" nel cammino verso la "liberazione, l'indipendenza e la costruzione di una nuova Siria". Un cammino sotto il controllo di una guida militare, sul modello di quella dei generali egiziani che assicuravano una transizione del dopo Mubarak confacente ai desideri degli sponsor imperialisti e sionisti. Di altro parere i rappresentanti di undici organizzazioni e diciassette personalità dell'opposizione, provenienti in parte dalla Siria e in parte residenti all'estero, che il 26 luglio scorso a Roma presso la Comunità di Sant'Egidio, firmavano "L'appello di Roma per la Siria" nel quale si affermava che "il nostro futuro lo costruiremo con le nostre mani". L'appello affermava che "siamo parte del popolo siriano che soffre per l'oppressione della dittatura e la sua corruzione. Siamo fermamente contrari a qualsiasi discriminazione su base confessionale o etnica, da qualunque parte venga. Siamo per una Siria di uguali nella cittadinanza. Vogliamo che la Siria in futuro sia patria per tutti, capace di rispettare la vita e la dignità umana, nella giustizia". I partecipanti alla riunione di Roma sostenevano che "non è troppo tardi per salvare il nostro Paese! Pur riconoscendo il diritto dei cittadini alla legittima difesa, ribadiamo che le armi non sono la soluzione. Occorre rifiutare la violenza e lo scivolamento verso la guerra civile perché mettono a rischio lo Stato, l'identità e la sovranità nazionale" e sottolineavano che "occorre, oggi più che mai, un'uscita politica dalla drammatica situazione in cui ci troviamo. È il modo migliore per difendere gli ideali e realizzare gli obiettivi di chi mette a rischio la propria vita per la libertà e la dignità. Invitiamo i nostri concittadini dell'Esercito Siriano Libero, e tutti quelli che portano le armi, a partecipare a un processo politico per giungere a una Siria pacifica, sicura e democratica". Perché "non possiamo accettare che la Siria si trasformi in un teatro di scontri regionali e internazionali. Crediamo che la Comunità internazionale abbia la forza e le capacità necessarie per trovare un consenso che sia base di un'uscita politica dall'attuale drammatica crisi, basata sull'imposizione del cessate il fuoco, il ritiro degli apparati militari, la liberazione dei detenuti e dei rapiti, il ritorno dei profughi, gli aiuti di emergenza alle vittime, un vero negoziato globale senza esclusioni, che sarà completato da una vera riconciliazione nazionale basata sulla giustizia". 1 agosto 2012 |