La repressione non ferma la protesta popolare in Siria Le testimonianze che giungono dalla città di Daraa, nel sud della Siria, denunciano una situazione sempre più intollerabile per la popolazione a causa della mancanza di acqua, cibo, medicinali e elettricità dovute all'assedio imposto da parte dell'esercito inviato da Damasco per reprimere la protesta. Quasi un migliaio di persone si sono rifugiate nella vicina Giordania. Il 30 aprile i carri armati sono entrati nella parte vecchia della città e hanno assaltato la moschea Omari mentre si celebravano i funerali delle 30 vittime del giorno precedente. Nella giornata del 29 aprile altri 30 morti hanno segnato la repressione delle proteste decisa dal governo di Damasco in altre zone del paese, centinaia gli arrestati a Latakia e nei quartieri alla periferia della capitale.. Il pugno di ferro governativo non ferma la protesta popolare iniziata il 18 marzo a Daraa per chiedere riforme e protestare contro la repressione e allargatasi in varie parti della Siria. Protagonisti, come nelle rivolte tunisine e egiziane, i giovani disoccupati e la parte povera della popolazione, di quel 30% dei siriani che vive al di sotto della soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Le proteste organizzate da comitati cittadini o di quartiere hanno messo in difficoltà il governo del presidente Bashar Assad che ha provato a arginare la rivolta cambiando il governo, ponendo fine allo stato di emergenza e annunciando riforme democratiche e la libertà di stampa. Ma nel contempo ha inviato l'esercito a soffocare i centri della protesta. Una risposta contestata da una parte dello stesso partito unico Baath, al potere da 40 anni, e segnata dalle dimissioni annunciate il 28 aprile di oltre 200 membri in particolare delle regioni di Daraa e di Banias, nel Nord-ovest. Il 29 aprile una nuova ondata di manifestazioni ha interessato oltre 50 località del Paese, tra cui Latakia, Qameishli nell'est curdo, Homs, Hama, Banias e in diversi quartieri di una Damasco militarizzata. Manifestazioni disperse con i lacrimogeni dall'esercito che erano partite nonostante un avviso del ministro degli interni che le manifestazioni sarebbero state considerate illegali e impedite. Una parte dell'opposizione si sta organizzando per formulare richieste di riforme democratiche da raggiungere attraverso un dialogo nazionale. Altre formazioni puntano a sfruttare il legittimo malcontento popolare e la rivolta in corso per porre fine al governo del partito Baath, al potere dal 1963, e della famiglia Assad che lo guida dal 1970. Assad ha denunciato l'ingerenza dei "nemici" della Siria nella rivolta popolare, una ingerenza che cerca di sfruttare le differenze etniche e religiose di una popolazione composta da una maggioranza sunnita, il 75%, e dalle minoranze alauita, il 13% composto da una variante sciita a cui appartiene la famiglia Assad, cristiana, l'8%, drusa, ismailita e infine un 10% di etnia curda cui recentemente Assad ha concesso la cittadinanza. Una destabilizzazione se non una sostituzione del governo di Damasco può interessare ai filoccidentali sunniti libanesi dell'ex premier Hariri che già nel 2006, secondo quanto rivelato dai messaggi pubblicati da WikiLeaks, chiese agli Stati Uniti di rovesciare il regime siriano che appoggia i rivali Hezbollah. Come può interessare all'emergente potenza regionale Arabia Saudita, che ha inviato i suoi carri armati in Bahrein a reprimere le proteste della maggioranza sciita, e che pur avendo espresso solidarietà a Assad potebbe cogliere l'occasione per indebolire se non rompere l'alleanza trentennale della Siria con l'Iran. Se Israele tace ma non è detto che stia solo a vedere cosa succede a una Damasco che appoggia Hamas e la causa palestinese, a parte il ministro degli Esteri Lieberman che ha invitato la comunità internazionale a seguire lo "stesso comportamento" usato con la Libia, hanno parlato all'Onu a favore di una soluzione politica Russia, Cina e India che il 28 aprile hanno stoppato una risoluzione di condanna della Siria proposta da Francia, Regno Unito, Germania e Portogallo e sostenuta dagli Stati Uniti. Una decisione che ha irritato in particolare il governo francese che voleva almeno l'adozione di sanzioni contro Damasco, e anch'esso pronto a "fare come in Libia". Le principali potenze imperialiste e i loro alleati nella regione, ciascuno con i propri interessi e con la propria tattica, hanno più di un motivo per mettere il becco nelle vicende interne della Siria, il popolo siriano ne ha altrettanti e più importanti a partire dal diritto di decidere del proprio futuro per non cadere dalla padella nella brace. 4 maggio 2011 |