Dopo il vertice di Pechino con Hu, Obama torna a Washington a mani vuote La superpotenza cinese in ascesa non concede niente alla rivale superpotenza americana in declino Il 13 novembre da Tokyo, dove iniziava il suo viaggio asiatico, il presidente americano Barack Obama affermava che "l'ascesa della Cina non ci spaventa, non è una minaccia per l'America. Lo sviluppo delle nazioni non è un gioco a somma zero in cui l'una vince se l'altra perde", pur sapendo che il prossimo futuro sarà segnato anche dalla sfida tra le due superpotenze, una in ascesa, la Cina, e l'altra in declinio, gli Usa. Era largo negli elogi riconoscendo a Pechino di "svolgere un ruolo chiave nel far ripartire la crescita economica globale" e sperava di tornare a casa con qualche risultato dagli incontri col presidente cinese Hu Jintao in programma dal 15 al 18 novembre. Invece è tornato a casa a mani vuote. D'altra parte le differenze tra le due economie sono evidenti; gli Usa hanno un debito pubblico record e l'economia ancora in attesa di ripartire effettivamente dopo la crisi, la Cina ha in cassa 1.700 miliardi di dollari di obbligazioni del Tesoro americano, 3 mila miliardi di dollari di riserve attive, una crescita limata dalla crisi ma pur sempre sopra l'8% e la previsione di superare il Giappone entro pochi mesi. Quale premessa del sorpasso sugli Usa, per divenire prima potenza economica mondiale, che fino a pochi anni fa era previsto nel 2050 e adesso stimato nel 2030. Così mentre un portavoce del governo di Pechino sottolineava l'incontro tra "il presidente più indebitato del pianeta (Obama, ndr)" e "il primatista della ripresa economica (Hu, ndr)", il ministero del Commercio cinese comunicava che non ci sarebbe stato una moneta cinese, lo yuan, più forte e sganciato dal dollaro, come auspicavano gli Usa, perché "è ingiusto chiedere agli altri di apprezzare la loro moneta mentre il dollaro continua a calare". E di rincalzo il ministero attaccava anche la politica dei dazi protezionistici contro prodotti cinesi varati da Obama: "da sostenitori del libero mercato, gli Usa si sono trasformati nei campioni del protezionismo". E prima dei colloqui ufficiali lo stesso Hu Jintao era ancora più chiaro e faceva dichiarare a un suo consigliere che "lo schema per cui gli americani consumano e i cinesi producono non regge più. Ma Washington non può chiederci di scambiare le parti, per farci fare la sua fine". La dichiarazione comune pubblicata al termine dei colloqui tra Obama e Hu era confezionata con le diplomatiche affermazioni su Pechino e Washington "determinati a lavorare insieme per giungere a una crescita economica globale più bilanciata e sostenibile", seguita dall'esaltazione della collaborazione in campo scientifico e militare, sui temi della salute, della sicurezza nello spazio e sul clima. L'uscita della dichiarazione comune delle due superpotenze contro qualsiasi impegno vincolante sulla riduzione delle emissioni inquinanti, rilasciata a Singapore, in margine al vertice delle nazioni dell'Asia-Pacifico (Apec), del 15 novembre era senza dubbio un vergognoso passo indietro di Obama che a Pechino cercava di riparare strappando la promessa alla Cina di un impegno almeno politico di riduzione delle emissioni. La toppa era sistemata, il G2 (Usa-Cina) si impegnava a ridurre i gas serra ma il premier cinese Wen Jiabao ricordava a Obama che "la Cina non pagherà il conto lasciato da Usa e Ue in mezzo secolo di scarichi inquinanti, solo perché non hanno più interesse a mantenerci come loro fabbrica". 25 novembre 2009 |