Il capitalismo italiano perde pezzi. Svenduta Telecom alla Spagna Il governo deve tutelare gli interessi dei lavoratori: nessun licenziamento Quindici anni dopo essere stata varata dal governo di "centro-sinistra" di Prodi nel 1997, e completata da quello di D'Alema nel 1999, quella che allora fu chiamata "la madre di tutte le privatizzazioni", ossia la privatizzazione della Telecom, una delle allora più importanti e avanzate aziende pubbliche e tra le prime in Europa nel settore delle telecomunicazioni, è finita come non era difficile prevedere: con la svendita della Telecom in mani straniere, dopo essere stata regalata e data in pasto a industriali e finanzieri senza scrupoli, che si chiamavano Agnelli, Colaninno, Gnutti, Tronchetti Provera, che l'hanno spolpata, riempita di debiti e spinta verso un lento ma inesorabile declino economico e tecnologico, fino al desolante epilogo di oggi. Del tutto simile del resto a quello vergognoso dell'Alitalia, svenduta da Berlusconi a Colanninno (ancora lui!) e a una cordata di imprenditori ladroni, a spese della collettività, per finire un'altra volta sul mercato ma a prezzi molto più stracciati di allora. L'annuncio dell'acquisto del pacchetto di controllo della Telecom da parte della società spagnola Telefonica, che già deteneva i 46,2% della Telco, la finanziaria che a sua volta controlla Telecom col 22,4% delle azioni, è stato dato il 24 settembre dai soci italiani nella Telco: Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo, che da tempo avevano deciso di uscire dalla Telecom, e poche ore prima avevano raggiunto un accordo per vendere tutte le loro partecipazioni al partner iberico, ammontanti a circa la metà dell'intero pacchetto di Telco. Operazione facile e a prezzi di saldo L'operazione, che prevede più fasi da realizzarsi nel corso dei prossimi mesi, è costata in tutto 850 milioni a Telefonica. Intanto è salita a circa il 70% del capitale di Telco, col quale si è assicurata anche il pieno controllo di Telecom. E tutto ciò con una transazione completamente interna, tra privati, senza nemmeno dover passare dal mercato, poiché il pacchetto di controllo della Telecom, essendo del 22,4%, è inferiore alla soglia del 30% superata la quale il possessore sarebbe obbligato per legge a lanciare un'Opa (offerta pubblica di acquisto in Borsa). Per cui si può ben dire che gli spagnoli si portano via Telecom in maniera facile facile, senza concorrenti e per un tozzo di pane. Pur avendo infatti pagato le azioni acquistate il doppio del valore attuale di mercato (ma inferiore della metà al valore che avevano quando le comprò nel 2007 dalla Pirelli di Tronchetti Provera), Telefonica si è assicurata il controllo di una società di importanza strategica e dal valore intrinseco di circa 10/15 miliardi di euro, solo per quanto riguarda la rete telefonica. Inoltre alla società spagnola fa gola l'idea di acquisire il controllo della Tim in Brasile, paese dove è già presente con una propria società di telefonia mobile, e di poter fondere le due aziende per guadagnare spazio in quel mercato vasto e in piena espansione. Tanto più che Tim Brasile è uno dei pochi settori sani e redditizi rimasti alla Telecom. Nei piani della società iberica, che fra l'altro è anch'essa piena di debiti e non molto più in salute della sua controllata, non pare esserci invece alcuna intenzione di fare gli investimenti per l'ammodernamento e il rilancio di cui la Telecom avrebbe urgente bisogno. Al contrario si parla, e non da ora, che essa stimerebbe l'attuale personale di Telecom "sovradimensionato" di 12 mila unità. Il passaggio di mano sarebbe cioè tutt'altro che indolore per i lavoratori e i sindacati, che presto si potrebbero veder presentare dagli spagnoli un conto di decine di migliaia di "esuberi". L'annuncio del passaggio di Telecom in mani straniere ha colto di sorpresa e quasi "scioccato" il governo, i partiti, i media, che improvvisamente si sono accorti che il già sbrindellato capitalismo italiano aveva perso un altro pezzo da novanta, e che un'azienda di importanza strategica per il funzionamento e la sicurezza del Paese era caduta in mani straniere, sia pure europee e comunitarie. Eppure si sapeva da tempo che Telecom era in cattive acque e che stava cercando capitali anche all'estero, tanto che in passato c'erano state trattative anche con facoltosi finanzieri mediorientali e asiatici. E del resto nessuno aveva trovato nulla da ridire quando gli spagnoli erano entrati in forze nel capitale della Telecom già diversi anni fa. Ma in tutti questi anni i governi e i partiti erano evidentemente in tutt'altre faccende affaccendati. Un simbolo del declino nazionale La notizia della svendita della Telecom a prezzi di saldo, quasi un simbolo eclatante della china rovinosa in cui sta sempre più scivolando il capitalismo italiano, è piombata proprio mentre il presidente del Consiglio Letta era in America a magnificare la convenienza degli investimenti in Italia agli imprenditori d'oltreoceano. La contraddizione non poteva essere più clamorosa, eppure l'unica cosa che lì per lì ha saputo balbettare è che "Telecom è una società privata, e la Spagna fa parte dell'Europa": normale amministrazione, fatti loro, insomma. Tuttavia, al suo rientro in Italia, la patata bollente era ancora lì ad aspettarlo. Il governo, i partiti, il parlamento, si erano improvvisamente accorti che con la Telecom stava per finire in mani straniere anche l'intera rete di comunicazioni del nostro paese, e provavano a chiudere la stalla sperando che i buoi non fossero già tutti scappati. Il Copasir (il comitato parlamentare di controllo sulla sicurezza e sui servizi segreti), presentava una relazione allarmata sui rischi per la sicurezza derivante dalla perdita del controllo nazionale sulla rete. Franco Bernabè veniva chiamato a fornire spiegazioni con un'audizione in Senato, e perfino davanti al capo dello Stato. Da parte sua il presidente di Telecom, dato del resto intenzionato a dimettersi al prossimo Consiglio della società, replicava sostanzialmente: "dovevate pensarci prima". Nel governo si faceva strada l'idea, proposta dal ministro del Tesoro Saccomanni, di rivedere la legge sul cosiddetto Golden power (quella che col consenso della Ue dà facoltà ai governi nazionali di intervenire quando sono in gioco aziende di interesse strategico, e che è già stata utilizzata per esempio per le reti Enel ed Eni), in modo da includervi anche la rete Telecom, di cui i governi si erano finora praticamente disinteressati. Tale provvedimento avrebbe dovuto accelerare lo scorporo della rete dalle altre proprietà della Telecom. Un decreto ad hoc avrebbe dovuto essere varato nel Consiglio dei ministri del 27 settembre scorso, ma è saltato insieme agli altri provvedimenti in agenda, tra cui il rinvio dell'aumento dell'Iva, a causa dell'improvvisa crisi di governo allora annunciata da Berlusconi. Il governo ora ha il dovere di occuparsi di questo ineludibile problema e di risolverlo al più presto, perché non è solo in ballo la sicurezza nazionale, ma il destino di decine di migliaia di famiglie di lavoratori. In ogni caso il governo deve tutelare l'interesse dei lavoratori e imporre che in Telecom non venga effettuato un solo licenziamento. 9 ottobre 2013 |