Tangentopoli travolge il PD. Mazzette su petrolio e appalti Arrestati il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara D'Alfonso La procura di Potenza: "Un comitato d'affari ha svenduto la Basilicata" Nato sotto i colpi delle inchieste giudiziarie sulle scalate bancarie (che fin da subito chiamarono in causa i massimi vertici del partito con alla testa Fassino e D'Alema), il PD, a distanza di poco più di un anno dalla sua fondazione rischia di essere letteralmente travolto e spazzato via dalla nuova Tangentopoli. Dopo la sanitopoli abruzzese e l'arresto di Del Turco, le inchieste di De Magistris che tirarono in ballo Prodi e Mastella, gli appalti truccati in Umbria e i rifiuti del Lazio a cui si sono aggiunte le recenti inchieste di Firenze, Napoli, Genova, Roma, Catanzaro, Trento e Crotone con decine di arresti, avvisi di garanzia, perquisizioni e intercettazioni a carico di altrettanti boss politici nazionali e locali ivi compresa l'Idv del falso moralizzatore Di Pietro; a partire dal 15 dicembre il PD si trova a fare i conti anche con le procure di Potenza e Pescara che indagano sui loschi affari realizzati intorno al grande business del petrolio e degli appalti truccati in Lucania e il sistema tangentizio sugli atti amministrati in Abruzzo. Petrolio, appalti e tangenti in Basilicata Il 16 dicembre il pm di Potenza Henry John Woodcock, che da giugno 2007 indaga su una nuova P2 dedita al controllo degli appalti per le estrazioni di petrolio e la costruzione di metanodotti in Val d'Agri, ha chiesto e ottenuto dal gip Rocco Pavese l'arresto di dieci persone e cinque indagate a piede libero tutte accusate a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d'asta, corruzione e concussione. In cima all'elenco spicca il parlamentare PD Salvatore Margiotta che però è riuscito a evitare le manette grazie alla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera che il 18 dicembre a stragrande maggioranza e con voto bipartisan ha respinto la richiesta di arresto del gip. In carcere sono finiti Nicola Montesano, consigliere provinciale del PD a Matera, il sindaco del comune di Gorgoglione, Ignazio Torretta (Udeur), l'imprenditore di Policoro, Francesco Rocco Ferrara (già indagato per droga) e tutto il vertice della Total Italia con alla testa l'amministratore delegato Lionel Levha, i dirigenti Jean-Paul Juguet e Roberto Pasi, rappresentante Total in Lucania, e di un collaboratore di Pasi, Roberto Francini. Mentre tra gli indagati ci sono anche il presidente della Regione, Vito De Filippo, (PD) e il presidente della Provincia di Matera, Carmine Nigro, eletto con i Popolari Udeur. Si tratta, scrive il pm nella sua richiesta, di un vero e proprio "comitato d'affari", che attraverso il controllo degli appalti e sulla base di un criminale intreccio di interessi tra politici, imprenditori, funzionari pubblici e faccendieri: "ha svenduto la Basilicata e le sue ricchezze a discapito del pubblico interesse". Al centro dell'inchiesta ci sono gli appalti per la costruzione dell'impianto di sfruttamento del giacimento di "Tempa Rossa" nel territorio del comune di Gorgoglione che, una volta a regime, ogni giorno produrrà 50mila barili di petrolio, 250 mila metri cubi di gas naturale, 267 tonnellate di gpl. La prima concessione per la costruzione del "Centro Oli" "Tempa Rossa" è stata firmata nel marzo 2007 tra Total Italia, proprietaria della concessione, il comune di Gorgoglione e gli imprenditori privati. Nell'ordinanza del gip si legge fra l'altro che l'assegnazione degli appalti veniva decisa da Margiotta e da altri politici lucani che di volta in volta segnalavano ai vertici della società petrolifera chi doveva vincere la gara. E in diverse occasioni è successo che il "comitato d'affari" capeggiato da Margiotta è arrivato perfino a manomettere le buste delle offerte per favorire la cordata di imprese capeggiata da Ferrara a cui, infatti, sono assegnate tutte le gare d'appalto relative alla concessione: trivellazioni, strade, condutture. Il "comitato d'affari", scrive ancora il gip, aveva come unica "ragione sociale quella di incidere, condizionare e intervenire illecitamente e surrettiziamente su tutti gli appalti legati allo sfruttamento del petrolio". E che per questo "sono state sostituite le buste con le offerte durante la gara d'appalto". In cambio degli appalti Ferrara garantiva "periodiche donazioni" del valore anche di 200 mila euro al gruppo lucano del PD capeggiato da Margiotta. Mentre al sindaco Torretta, per la sua attività di intermediazione fra Margiotta e i vertici della compagnia petrolifera francese, oltre al rinnovo del contratto alla sua società di catering per rifornire le mense dei cantieri di Ferrara, venivano garantite anche "periodiche elargizioni di danaro in contanti, doni e un oggetto prezioso per la sua attività di mediazione e di rilascio di permessi a Total e alla cordata-Ferrara". Nello scandalo degli appalti a "Tempa Rossa" è implicato anche Domenico Pietrocola, dirigente della provincia di Matera, che secondo il pm ha ricevuto da Ferrara 200 mila euro in cambio dell'appalto di una strada. Mentre al gruppo francese, in segno di ringraziamento per il favoreggiamento nelle gare, l'imprenditore lucano ha garantito la sottoscrizione di "un accordo commerciale dal valore di 15 milioni di euro: tutte le imprese locali si sarebbero infatti rifornite per cinque anni, il tempo dei lavori, solo di carburanti e di olii lubrificanti della Total". In cambio di favori e tangenti anche il funzionario del comune di Corleto Perticara ha "imposto in accordo con Total, condizioni capestro per l'esproprio dei terreni" dove sono situati gran parte dei giacimenti petroliferi, pagandoli ai proprietari appena 6 euro al metro quadro. Insomma, concludono amaramente gli inquirenti: "Una grande occasione di sviluppo per tutta la Basilicata, si è invece tradotta in un' occasione di arricchimento per una schiera di soggetti, politici e imprenditori, espressione di un comitato d'affari che ha praticamente svenduto la terra della Basilicata e le sue ricchezze a discapito del pubblico interesse". Uno scenario criminoso governato da un'unica regola, ossia: "il pagamento di un prezzo, quale che sia, versato sistematicamente per remunerare i favori ricevuti". A trarre profitto dalle ricchezze del sottosuolo lucano non sono state né le popolazioni della Basilicata, ancora costrette ad emigrare al ritmo di 4 mila persone all'anno, né il territorio, in gran parte inquinato dall'attività estrattiva e privo di servizi e infrastrutture per la popolazione; ma solo ed esclusivamente i padroni delle grandi imprese italiane e le multinazionali americane che per lo sfruttamento dei giacimenti pagano royalties irrisorie, tra le più basse del mondo. Il verminaio di Pescara A cinque mesi esatti dal terremoto politico-giudiziario che il 14 luglio scorso portò all'arresto del governatore Del Turco e all'azzeramento della giunta regionale, a partire dal 15 dicembre il PD abruzzese si trova nel mezzo di un nuovo ciclone giudiziario. Con l'accusa di concussione, truffa, peculato, falso ideologico e associazione per delinquere è finito in carcere il sindaco di Pescara, Luciano D'Alfonso, che è anche segretario regionale del PD. L'inchiesta, condotta dal pm pescarese Gennaro Varone, si riferisce agli appalti per la gestione dei cimiteri, la riqualificazione dell'area di risulta dell'ex stazione ferroviaria e un giro di tangenti da oltre 200 mila euro. Secondo il Procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi, è "stato provato il passaggio di soldi in cambio di atti amministrativi favorevoli. Non sono state elargite grandi cifre, siamo nell'ordine dei 200 mila euro. Ma si tratta di cifre accertate". Assieme a quello di D'Alfonso, il gip Luca De Ninis ha disposto l'arresto dell'imprenditore Massimo De Cesaris, e dell'ex braccio destro del sindaco, Guido Dezio, dirigente dell'ufficio appalti e patrimonio del comune, già arrestato nel maggio scorso con l'accusa di concussione e tentata concussione in una analoga inchiesta giudiziaria in cui fra gli altri compariva come indagato anche D'Alfonso. Lunghissimo l'elenco degli indagati che raggiunge quota 38 e che tra gli altri comprende il padrone di Air One Carlo Toto e suo fratello Alfonso, che hanno messo a disposizione di D'Alfonso vetture, cene elettorali, pacchetti vacanze per i famigliari e voli aerei gratuiti. Tutto riscontrato e messo nero su bianco dai pm sotto la voce: dazioni per "altre utilità" in cui figurano viaggi gratuiti con la AirOne tra il 2003 e il 2006 per l'ex sindaco e i familiari sulle tratte Malta e Venezia (per un costo che supera i 28 mila euro); pranzi di lavoro in ristoranti di Roma (904 euro) e Pescara (quasi 11 mila euro); tre anni di auto con autista a carico dei Toto (valore complessivo, 72 mila euro); 7 mila euro per un contributo elettorale alle politiche del 2006. In cambio, secondo gli inquirenti, D'Alfonso avrebbe promesso una politica benevola per la Toto spa, soprattutto per quello che riguarda i progetti di project financing per l'area di risulta dell'ex stazione ferroviaria. Uno scenario a dir poco inquietante, specie se si pensa che sono già quattro le inchieste giudiziarie in cui è pesantemente coinvolto il sindaco D'Alfonso e buona parte del vertice abruzzese del PD. Filoni di indagini che a breve potrebbero riservare ulteriori sviluppi perché al vaglio degli inquirenti c'è la stessa fondazione "Europa proxima" e la lista delle dazioni in "bianco" e in "nero" redatta da Dezio e sequestrata dagli inquirenti nel corso di una perquisizione nella sua abitazione. Al sindaco di Pescara era già stato notificato più di un avviso di garanzia nell'ambito di diversi filoni di indagine. Il 5 gennaio 2008 fu interrogato in Procura per quattro ore e il verbale venne secretato. All'epoca fu il costruttore Aldo Primavera a denunciare presunti abusi e favoritismi nei confronti dei "soliti" imprenditori. Disse di aver pagato per anni tutti "ma qui non si sblocca nulla" fornendo alla squadra mobile anche una "prova" contro l'attuale amministrazione: un fondaco ad uso gratuito la cui piena disponibilità era all'ex segretario particolare del sindaco, Dezio. Il "primo cittadino", ma anche i suoi familiari, furono sottoposti ad accertamenti bancari e patrimoniali. Inoltre D'Alfonso, nell'ambito di un'altra inchiesta, è anche accusato di abuso patrimoniale proprio per l'assunzione in Comune di Guido Dezio. E Dezio, a sua volta, deve rispondere di abuso e falso ideologico per aver attestato il falso nel presentare i requisiti per partecipare al concorso. Una settimana prima del suo arresto, D'Alfonso, nel vano tentativo di evitare le manette, si era presentato in procura per rendere dichiarazioni spontanee e, nel corso dell'interrogatorio con il magistrato, aveva addirittura annunciato le sue dimissioni dalla carica elettiva. Una sceneggiata a dir poco vergognosa specie se si pensa che non appena gli sono stati revocati gli arresti, D'Alfonso ha immediatamente ritirato le dimissioni col chiaro obiettivo di tornare in sella e gestire nel migliore dei modi la prossima scadenza elettorale amministrativa di giugno. Altro che "nuova classe dirigente e nuovo modo di governare vicino ai cittadini" di cui ciancia il PD che addirittura: "esprime solidarietà al sindaco, vista la presunzione d'innocenza che deve valere in ogni caso" e esulta per le scarcerazioni degli arrestati a Potenza dimenticando che si tratta di un atto motivato dal venir meno del pericolo di inquinamento delle prove e non già, come vorrebbe far credere Veltroni, perché le accuse sono inconsistenti e l'impianto accusatorio non regge. La verità è che il PD è dentro fino al collo negli scandali di tangentopoli! E tutto ciò avviene mentre a Milano è in corso di svolgimento il processo sulle scalate bancarie del 2007 che vede fra gli altri sul banco degli imputati l'ex amministratore delegato della banca popolare di Lodi Gianpiero Fiorani, i vertici di Unipol Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, il presidente della Commissione Lavori Pubblici del Senato Luigi Grillo e l'ex governatore della Banca d'Italia Antono Fazio, accusato di aver aiutato Fiorani per l'acquisto di Antonveneta a spese dell'altro concorrente interessato all'acquisizione: la banca olandese Abn amro. All'appello, nello scranno degli imputati, manca D'Alema salvato dal parlamento europeo che il 18 novembre scorso ha negato al gip Forleo l'autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni che lo riguardano come prove del suo coinvolgimento nelle inchieste bancarie. 7 gennaio 2009 |