Critica del pensiero e del programma politico, pseudo-riformista, di Serge Latouche
La "decrescita serena" è un'utopia reazionaria
I fautori della "Terza via" nascondono le cause della devastazione ambientale: non mettono in discussione il potere della borghesia monopolistica, la divisione in classi, la legge del massimo profitto, la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'imperialismo, quale fase suprema del capitalismo. Auspicano la "pace sociale" tra oppressi ed oppressori per uscire dalla crisi
I veri ambientalisti devono dire basta con il capitalismo. Ci vuole il socialismo!

Serge Latouche, economista e professore di scienze economiche all'università di Parigi XI e all'istituto francese di studi sullo sviluppo economico e sociale, in numerosi articoli, libri e documenti, ha delineato i contorni di una nuova, idilliaca, società: "a misura d'uomo", "conviviale", in "armonia con la natura", "autenticamente democratica". Una "società ecocompatibile", che sarebbe possibile realizzare attraverso "l'attuazione graduale", da parte di governanti e cittadini illuminati, "di un programma politico globale basato sul concetto-guida di decrescita serena".
Scopo di questo studio è la critica del suo pensiero e del suo programma politico.
Questo lavoro si rende ancora più necessario, poiché, a dispetto delle palesi contraddizioni interne, la "teoria della crescita serena" ha raggiunto negli ultimi anni una notevole risonanza a livello mondiale, in particolar modo tra le file di quella parte della borghesia, accreditata come "ambientalista" e "progressista", che ambisce a dirigere i movimenti anti-globalizzazione, o in qualche modo a orientarne la linea politica.
Latouche infatti rivolge la propria attenzione principalmente a quei paesi "a capitalismo avanzato" dove lo spaventoso ciclo di recessione economica sta generando ondate sempre più vaste e ravvicinate di proteste fino a vere e proprie rivolte popolari contro il capitalismo finanziario e i governi che ne reggono le sorti.
Nei prossimi paragrafi, dopo averne descritto le radici storiche e i capisaldi salienti, analizzeremo il decalogo di "riforme" ambientaliste e di controriforme economiche e sociali che discende da questa teoria utopistica. In particolare ci soffermeremo sui numerosi errori teorici, in campo economico e filosofico e sulle numerose rivendicazioni reazionare, a dispetto delle quali il pensiero di Latouche vuole rappresentarsi come un'alternativa alla globalizzazione e alla crisi economica globale, e come "il volano per la trasformazione anticapitalistica ed eco-socialista della società".
Cercheremo infine di svelare gli scopi, non dichiarati, che sottendono questo "originale" castello di sabbia teorico-pratico, ossia: 1) dare "pace" alle angosce degli intellettuali della piccola e media borghesia, spaventata, più che mai, per il susseguirsi dei disastri economici, sociali ed ambientali e per la spaventosa recessione economica che sta investendo le grandi potenze imperialiste dell'Occidente. 2) fornire una insperata giustificazione alla politica di Austerity, e di demolizione dello "Stato sociale", che i governanti europei stanno mettendo in campo, scaricando sulle masse popolari il costo della crisi. 3) spargere nuove illusioni sulla possibilità che dalla recessione possa germogliare, come per incanto, una sorta di mondo dei balocchi definito, allo stesso tempo, "pre-capitalistico e post-capitalistico", sebbene radicato e saldamente ancorato al dogma del "libero mercato".
Naturalmente la critica principale che muoveremo alla schiera di maestri e autorevoli seguaci della teoria della "decrescita serena", resta in sostanza la stessa che muoviamo nei confronti di tutti i fautori della cosiddetta "Terza Via", i quali, girando alla larga dal nocciolo della contraddizione, auspicano un mondo diverso che sarebbe possibile costruire non combattendo e distruggendo il capitalismo e l'imperialismo ma nell'ambito del capitalismo stesso.
Ci domanderemo infine se dietro l'accattivante paravento della "green-economy" degli ambientalisti e degli economisti della "sinistra" borghese non si nasconda il desiderio, più che di "riformare", di imbellettare il disumano sistema capitalistico, di riverniciarlo di verde, di trovare il metodo per preservarlo dalle crisi che lo investono, di provare a ritardarne il tracollo. Se non si nasconda, in un'ultima analisi, il desiderio di consolidarne le traballanti, marce e irriformabili, fondamenta.
Cercheremo dunque di convincere i veri comunisti e i veri ambientalisti, che ancora sono sotto l'influenza dei dirigenti del Prc, del Pdci, del Sel e dei Verdi, che si tratta di una teoria ingannatoria, frutto di un ormai vecchio e fallito riformismo e pacifismo borghesi, che mira, più che ad elevarne la coscienza, a tarpare le ali al movimento anti-globalizzazione ed ai movimenti ambientalisti.

Cenni storici e riferimenti ideologici
Dal punto di vista storico il pensiero di Latouche si aggancia alle teorie demografiche di Thomas Malthus (1766-1834) e ai movimenti contro l'industrializzazione del XVIII secolo, sviluppati in Gran Bretagna da John Ruskin a capo del movimento Arts and Crafts (1819-1900), negli Usa da Henry David Thoreau (1817-1862) ed in Russia da Leo Tolstoy (1828-1911).
Alcuni concetti, come quello che assimila la specie umana ad una "forza geologica entropizzante" sono ripresi da Vladimir Vernadisky (1863-1945), altri, come il concetto di "semplicità volontaria",  provengono dagli scritti del Mahatma Gandhi, ed altri ancora, come la critica al consumismo, dai libri di Ivan Illich, scritti a cavallo tra gli anni '60 e '70.
Tra i principali rifermenti ideologici di Latouche ci sono i sociologi Emile Durkheim e Marcel Mauss, gli antropologi Karl Polanye e Marschell Sahilns, gli psicoanalisti Erich Fromm e Gregory Bateson, l'economista Kenneth Boulding., e soprattutto gli ecologisti francesi Andrè Gorz, Francois Partant, Jacques Ellul, Bernard Charbonneau. Tra i "pionieri" della teoria, dal punto di vista filosofico e politico, Latouche annovera soprattutto Cornelius Costaridis, Sadi Carnot, Sergey Podolinsky, oltre allo statistico ed economista rumeno, già professore alla Sorbona di Parigi, Nicolais Georgescu Roegen (1906-1994).
Il termine "decrescita", spiega l'autore, fu coniato proprio da Roegen nel 1971 nella sua  "teoria dell'economia ecologica", un anno prima del primo rapporto sui "limiti dello sviluppo" che fu presentato ad un convegno del club di Roma (1972).
La teoria di Latouche si avvale di appoggi politici "altolocati" come quello di Fidel Castro, Nelson Mandela, Joseph Ratzinger, e persino di Henry Kissinger.
I due pilastri di questa teoria e del relativo programma rivendicativo sono la "decrescita conviviale" e il "localismo",  "in contrapposizione alla standardizzazione ed omogeneizzazione e all'imperialismo culturale causati dalla globalizzazione".

Gli errori teorici di fondo
Due errori principali sottendono le opere di Latouche. Il primo consiste nella tendenza a trasferire a piè pari le leggi che governano la fisica (come i principi della termodinamica e principi di conservazione dell'energia), nonché le leggi dell'ecologia (ossia lo studio degli ecosistemi viventi) al mondo dell'economia e della società umana, come se queste ultime non rispondessero a leggi e contraddizioni peculiari e specifiche. Nel lontano ottocento, furono Marx e Engels a scoprire per primi queste contraddizioni inconciliabili, insieme ai mezzi per risolverle. Essi, va detto, nelle loro analisi del sistema capitalistico, sono distanti anni luce, per rigorosità scientifica, dai filosofi e dagli economisti moderni.
Purtroppo Latouche li ignora, definisce addirittura "superfluo" il marxismo e pertanto non riesce ad andare oltre le banalità di un Nicolas Raegen, il quale all'inizio degli anni '70, invitava (peraltro invano) gli economisti borghesi a  "ripensare radicalmente la scienza economica, rendendola capace di incorporare il principio dell'entropia ed in generale i vincoli ecologici". La grande scoperta di questo scienziato rumeno, quella che è diventata una sorta di bibbia per i teorici della decrescita è la seguente: "visto che al termine di qualsiasi processo la qualità energetica peggiora invariabilmente rispetto allo stato iniziale, la produzione dei beni materiali fa decrescere la disponibilità energetica nel futuro. Nel processo economico non solo la qualità dell'energia peggiora ma anche la materia riduce la possibilità di essere usata in successivi processi economici. Quando le materie prime concentrate nel sottosuolo vengono disperse hanno una scarsa probabilità di venire reimpiegate nel ciclo economico e se ciò avviene si verifica in misura assai minore, materia ed energia entrano quindi nel processo economico con un livello di entropia bassa e ne escono con una più alta".(1)
All'inizio del '900 così criticava questa corrente di pensiero un altro grande marxista e maestro del proletariato internazionale, Lenin: "Bogdanov non si impegna affatto in un'analisi marxista, ma travisa, con una terminologia biologica ed energetica, i risultati precedentemente già ottenuti per mezzo di quest'analisi. Questo tentativo, dal principio alla fine, è completamente inutile, poiché l'applicazione dei concetti di 'selezione', di 'assimilazione' e di 'disassimilazione' dell'energia, di bilancia energetica e così di seguito, al campo delle scienze sociali, è vuota fraseologia... il trasferimento di concetti biologici, in generale, nel campo delle scienze sociali, è solo una frase. Che questo trasferimento venga effettuato con 'buone' intenzioni, o nell'intento di convalidare conclusioni sociologiche false, la frase rimane tuttavia sempre vuota. E l''energetica sociale' di Bogdanov, la dottrina della selezione sociale da lui associata al marxismo, è per l'appunto una frase di questo genere".(2) Il secondo errore fondamentale di Latouche è affidarsi, nella critica al modo di produzione attuale, alle analisi sociologiche di Ivan Illich, per il quale il pilastro portante del capitalismo sarebbe il consumismo. Confondendo gli effetti con le cause, il professore afferma: "Per permettere alla società dei consumi di continuare il carosello diabolico sono necessari tre ingredienti: la pubblicità, che crea il desiderio di consumare, il credito, che ne fornisce i mezzi, e l'obsolescenza accellerata e programmata dei prodotti, che ne rinnova la necessità. Queste tre molle della società sono vere e proprie istigazioni a delinquere".(3)
Si tratta di un errore esiziale dal punto di vista teorico e pratico, perché né Illich né Latouche si degnano di prendere in considerazione e analizzare le immanenti contraddizioni del modo di produzione vigente: quella tra lavoro e capitale, tra il proletariato e la borghesia monopolistica, tra i trust finanziari e le potenze imperialistiche per la spartizione delle fonti di materia prima e le sfere di influenza geopolitica, quella tra un pugno di paesi imperialisti dominanti e il resto delle nazioni e dei popoli dominati, né tanto meno la contraddizione insanabile tra l'anarchia della produzione capitalistica basata sul profitto e sui monopoli e la tutela degli ecosistemi e degli equilibri ecologici del pianeta.
Latouche in sostanza mette al centro della sua analisi e della sua proposta politica la lotta al consumismo, negando che la contraddizione tra la produzione capitalistica e il consumo di beni e di materie prime, è una contraddizione subordinata e secondaria che non può essere né compresa né risolta separatamente da quelle sopracitate.

Una diagnosi di comodo dei mali del mondo
Nella sua principale "opera", la "Scommessa della decrescita" (2006), sintetizzata nell'opuscolo dal titolo: "Breve trattato sulla decrescita serena" (2010), Latouche muove proprio da queste errate premesse generali per dispiegare il suo ragionamento politico. Seguiamolo più nel dettaglio.
"Si può credere veramente che una crescita infinita in un pianeta finito sia possibile?" si domanda e dalla risposta negativa fa discendere una prima conclusione, su cui invita i lettori a convenire: "non si può non sottoscrivere la diagnosi di Belpomme: la crescita è diventata il cancro dell'umanità", "la crescita è l'inferno che ci minaccia".(4)
Come si può notare non già il capitalismo in sé, ma il concetto astratto di "crescita" è l'obiettivo fuorviante di tutte le sue critiche al sistema vigente.
Di seguito osserviamo lo stesso concetto espresso nei termini dell'attacco al "dogma dell'aumento del Pil: Il funzionamento del sistema economico attuale dipende - scrive Latouche - da risorse non rinnovabili" e non essendovi "alcuna prova della possibilità di separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto ecologico" occorre prendere rapidamente coscienza che "la limitatezza delle riserve di materia prima"  è "in contraddizione con il principio della crescita illimitata del Pil".(5)
Senza mai veramente uscire dalla logica del sistema Latouche si scaglia esclusivamente contro questo "feticcio degli economisti liberali", il Pil (Prodotto interno lordo), che definisce: "la bussola indiscutibile per i sostenitori della teoria del cosiddetto sviluppo sostenibile".
In dichiarata polemica con essi, e con "l'ipocrisia della CGT" (il principale sindacato francese, ndr), egli sostiene che la crescita del Pil è una iattura in quanto "la crescita della ricchezza materiale (beni e servizi) avviene a danno di altre forme di ricchezza, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza e così via" e che "le società attuali sono drogate da consumi materiali considerati futili, non percepiscono lo scadimento di ricchezze più essenziali come la qualità della vita, e sottovalutano le reazioni degli esclusi, come il risentimento contro gli occidentali nei paesi esclusi dallo sviluppo economico occidentale". E ancora più oltre insiste sul concetto: "La decrescita è dunque uno slogan politico con implicazioni teoriche, una parola bomba secondo la definizione di Paul Arles", che ha lo scopo di "sottolineare con forza la necessità dell'abbandono della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale, con conseguenze disastrose per l'ambiente e dunque per l'umanità. Non soltanto la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l'uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno".(6)
Sia detto per inciso che seguendo questo ragionamento dovremo esser contenti di registrare che il Pil è in caduta libera, non solo nel Terzo Mondo ma anche negli Usa e in molti paesi europei, tra cui la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l'Italia, con l'affamato Mezzogiorno sempre più fanalino di coda, sempre più desertificato dal punto di vista industriale e sempre in mano alle mafie (Pil in nero).
Ma "sorvoliamo", per far notare ancora una volta la tendenza a dare per scontato: 1) che l'unico modello di crescita economica possibile, e storicamente realizzata, sia quella capitalistica 2) che sia impossibile "separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto ecologico" - affermazione indubbiamente vera per il modo di produzione capitalista, ma certamente falsa per quello autenticamente socialista, (vedi ad esempio la Cina tra il 1949 e il 1980) dove una economia pianificata in base ai bisogni reali della popolazione rendeva pienamente possibile una crescita economica non dissipativa di energia vitale, materie prime ed equilibri ecologici.
Ciò detto, non si può dire, che il nostro economista non provi a staccare ogni tanto i piedi da terra, ad esempio quando si dichiara disgustato della disumanità del profitto e del capitale, della devastazione ambientale e dell'alienazione dell'essere umano che ne deriva, o quando afferma che "è relativamente facile  concepire energie alternative e continuare a produrre e consumare allo stesso modo. Invece se si vuole ragionare del risparmio di materia bisogna rivedere interamente la logica del sistema".(7) Il guaio è che finisce sempre per ripiombarvi miseramente appena un passo più avanti: "rivedere la logica del sistema" per lui significa solo applicare la cosiddetta equazione Kaya: "La domanda e quindi la produzione deve essere abbassata a livelli che prevengano l'esaurimento e siano sostenibili per l'ambiente... sia la decrescita economica, intesa come una riduzione obbligata dei consumi, sia una diminuzione della popolazione mondiale sarebbero essenziali al fine di evitare una catastrofe ecologica".(8)
Sorge spontanea quindi una domanda: come mai, egregio prof. Latouche, se la riduzione obbligata dei consumi è già da tempo drammaticamente in atto anche nel mondo occidentale, in nessuno di questi paesi si registra una sostanziale inversione di tendenza per quanto riguarda la sostenibilità ecologica?

La terapia della lumaca
Il fatto è che Latouche è ancora talmente imbevuto di dogmatismo per il libero mercato che si limita "per salvare il mondo" a prescrivere una ricetta tutta interna al modo di produzione e di scambio capitalistico, del quale peraltro mostra di non comprendere i meccanismi di fondo.
Esaminiamo più nel dettaglio la terapia proposta da Latouche: "In questa situazione sarebbe urgente riscoprire la saggezza della lumaca. Infatti la lumaca non solo ci insegna la necessaria lentezza, ma ci impartisce una lezione ancora più indispensabile". Questa metafora è ripresa da un testo di Ivan Illich: "la lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l'altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare circonvoluzioni stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più grande. Invece di contribuire al benessere dell'animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A quel punto, qualsiasi aumento della sua produttività servirebbe unicamente a rimediare alle difficoltà create dalla dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità. Superato il punto limite dell'ingrandimento delle spire i problemi della crescita eccessiva si moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica. Questo divorzio - sentenzia Latouche - della lumaca dalla ragione geometrica, che per un periodo aveva anche lei sposato, ci mostra la via per pensare una società della decrescita, possibilmente serena e conviviale".(9)
In primo luogo notiamo che il capitalismo è paragonato ad un tenero ed innocuo mollusco, e non ad uno spietato ed insaziabile predatore, come lo squalo o il caimano. In secondo luogo si vuol far credere che questo organismo economico abbia la naturale potenzialità di riconoscere un punto limite e, all'occorrenza di invertire la sua strategia di sviluppo. In terzo luogo si dà per scontato che il fine ultimo del capitalismo (la lumaca) consista nel benessere della società nel suo complesso (ossia il benessere dell'animale). Ne consegue che il contenuto più realista di questa metafora è quello che sembra, a tutti gli effetti, un outing autobiografico: noi intellettuali un tempo siamo stati tutti liberisti e abbiamo sposato il dogma della ricerca del massimo profitto capitalistico (la progressione geometrica), adesso che siamo arrivati ad un punto limite, chiediamo il divorzio da questa legge e studiamo i metodi per riaddomesticare (con il ritorno alla progressione aritmetica) il mostro.
Ma, caro Latouche, se ti fosse rimasto un briciolo di onestà intellettuale, avresti dovuto dire che questo mostro non è mai stato e mai sarà, addomesticabile!

La tautologia della decrescita
Stiano tranquilli i capitalisti e gli schiavi salariati, stiano tranquilli gli oppressi e gli oppressori: una sana "decrescita conviviale", un ritorno alle economie localistiche, pacificamente, riuscirà a risolvere tutti i problemi del capitalismo, da quelli legati alla fornitura di energia, allo smaltimento dei rifiuti, dall'esaurimento delle materie prime alla sovrappopolazione. E' proprio questa la vera rassicurazione rivolta da Latouche ai lettori, quando parafrasando, o meglio scimmiottando e storpiando, il celebre slogan di Engels: "socialismo o barbarie" sentenzia: "L'alternativa dunque è esattamente decrescita o barbarie".
Nei confronti di chi lo accusa di volere ritornare all'età della pietra, Latouche risponde con un lungo panegirico che contiene una incredibile tautologia: "Decrescita - spiega - non è crescita negativa" perché è ovvio che "il rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nello sgomento, aumenta i tassi di disoccupazione e precipita l'abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita.  Possiamo immaginare quale catastrofe provocherebbe un tasso di crescita negativo. Come non c'è niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c'è niente di peggio di una società delle crescita in cui la crescita si renda latitante. Questo regresso sociale e civile è esattamente quello che ci aspetta se non invertiamo la direzione di marcia. Per tutte queste ragioni, la decrescita è concepibile soltanto all'interno di una società della decrescita, ovvero sia nel quadro di un sistema basato su una logica diversa".(10)
La decrescita economica sarebbe dunque positiva solo in una "società della decrescita", ma se la società della decrescita, è nella sua mente una società capitalistica umanizzata, essa è anche, oggettivamente, una società capitalistica campata in aria, una società che non esiste e mai esisterà sulla faccia della terra. Ne consegue allora che la decrescita capitalistica non è mai positiva e che occorre ritornare alla denuncia iniziale dell' autore sui mali della depressione economica, proprio quei mali che, con questo pseudo-ragionamento, egli intenderebbe combattere!
Si noti peraltro che in questo passaggio non siamo di fronte ad una questione meramente terminologica, ma ad un vero e proprio ossimoro della logica, concepibile solo per dei demagoghi incalliti.
Del resto nei confronti di chi, da sinistra, lo accusa di disinteressarsi totalmente degli operai e dei lavoratori in genere e di rinunciare persino alla rivendicazione democratico-borghese della piena occupazione, liquida così il discorso: "Cambiando il modo di vita sarà possibile risolvere il problema della disoccupazione, mentre focalizzando l'attenzione sull'occupazione in sé si rischia di non arrivare mai a cambiare la società e si va a sbattere contro un muro".(11) A chi gli chiede invece come sarebbe possibile garantire: "Lavoro per tutti in una società della decrescita", non va oltre la riduzione dell'orario di lavoro, "ove è possibile a parità di salario", e cita le sedicenti possibilità di impiego nei nuovi settori dell'ambientalismo e del terzo settore (che si fondano sul lavoro semi-volontariato e non sul lavoro vero), per compensare la scandalosa rivendicazione di una "riduzione dei mezzi di trasporto e degli altri servizi pubblici".
Quel che è certo è che il grande tema della emancipazione della classe operaia e delle masse lavoratrici dalla schiavitù salariata, e persino il dramma scottante e attualissimo del dilagare dei disoccupati e dei precari, ossia l'esercito industriale di riserva del capitalismo, non sono per lui problemi poi così rilevanti.
Pertanto, in definitiva, i suoi slogan potrebbero essere tradotti così: "proletari schiavizzati di tutto il mondo, lasciate fare agli intellettuali del Primo mondo, e mi raccomando non vi muovete, non vi agitate, non vi organizzate, abbiate la pazienza di aspettare a braccia conserte che la decrescita non solo sarà felice ma risolverà, miracolosamente, i problemi del mondo!".

Il programma politico-rivendicativo
Quando Latouche è chiamato a definire con precisione le caratteristiche della sua utopistica società della decrescita è costretto a rimanere imprigionato nel vago e nell'astratto: "è una società nella quale si vivrà meglio lavorando e consumando meno".(12)
Un merito però, rispetto alle confabulazioni teoriche e agli artifizi pseudo-dialettici di libercoli come "Impero" e "Goodbye Socialism" del suo compare Tony Negri, gli va senz'altro riconosciuti. Latouche ha avuto il coraggio di abbozzare un programma rivendicativo concreto sul quale è possibile discutere e misurarsi.
Egli propone di "ritornare ad una produzione materiale equivalente a quella degli anni 1960-1970, operando una drastica riduzione dei 'consumi intermedi', intesi in senso ampio (trasporti, energia, imballaggi, pubblicità), senza colpire il consumo finale", propone di "rimettere in discussione l'enorme spostamento di uomini e merci sul pianeta", propone di "restaurare l'economia contadina, con una produzione locale, stagionale, naturale, tradizionale".
Non sono queste forse le parole di un nostalgico del modo di produzione feudale o semi-feudale dell'Europa medioevale? Non nascondono il rimpianto per le antiche enclave comunali e rurali e il protezionismo localistico dei secoli bui?
Latouche si aggrappa a quella stessa ancora di "salvezza" a cui si è aggrappata la piccola borghesia reazionaria nei momenti di incertezza per il proprio futuro (valga su tutti l'appoggio di questa classe instabile al fascismo in Italia), sposando con la teoria della "autosufficienza economica delle comunità locali", quel gretto egoismo municipalista che in Italia ha dato vita alla devoluzione federalista, e che sta frantumando il nostro paese in 20 pezzi.
D'altra parte su altre rivendicazioni, che possono più propriamente essere definite "progressiste", si può anche convenire: "È indispensabile sopprimere progressivamente l'uso di pesticidi, allergogeni, neurotossici, immunodepressori, mutageni, cancerogeni, e perturbatori delle funzioni endocrine, cioè reprotossici (che possono provocare la sterilità)", "occorre dividere il lavoro ed aumentare il tempo libero", "occorre stimolare la produzione di beni relazionali, come l'amicizia e la conoscenza, ridurre lo spreco di energia, penalizzare le spese pubblicitarie, riorientare la ricerca scientifica e tecnica sulla base delle nuove aspirazioni delle persone (chimica verde, medicina ambientale)".(13)
Di certo non si può non essere d'accordo con l'obiettivo di "dare gambe all'economia solare teorizzata da Lester Brown, tutta fondata su energie rinnovabili": la costruzione delle pale eoliche e delle corrispondenti turbine; la produzione di cellule fotovoltaiche, l'industria delle biciclette, la produzione di idrogeno e dei motori corrispondenti, la costruzione di metropolitane leggere, la agricoltura biologica, la riforestazione e soprattutto incentivare la prassi delle quattro R (che con il tempo sono diventate otto): "Riduzione, riutilizzazione, riparazione, riciclaggio".
Sempre in un'ottica non riformista e pacifista potrebbe essere apprezzabile anche la rivendicazione di "un sistema mirato di ecotasse seguendo i progetti fiscali proposti da Attac", come la tassa sulle transazioni di cambio e di borsa, una tassa fissa sul profitto delle multinazionali, una tassa sul patrimonio, una tassa sulle emissioni di Co2, una tassa sulle scorie nucleari, altre tasse sulla pubblicità, sull'obsolescenza programmata, sul credito.
Per contro, incentivare il "tempo libero scelto" con l'aumento dell'Iva, è una castroneria, perché si tratta di un balzello indiretto, iniquo, in quanto non solo non progressivo, ma che grava interamente sul consumatore finale. L'Iva non va aumentata come hanno fatto, con le ultime manovre di lacrime e sangue, il governo del neoduce Berlusconi e quello del tecnocrate liberista Monti, bensì abolita.
"Abbassare il consumismo con l'aumento dell'Iva" è semplicemente un ricatto inaccettabile.

Riformismo e liberismo riverniciato
Ma arriviamo al dunque: qual è il marchio di fabbrica del programma di Latouche? In alcuni passaggi è l'autore stesso a svelarlo: "Queste misure riformiste in linea di principio sono compatibili con la teoria economica ortodossa: l'economia liberista. Cecil Pigou ne ha enunciato i fondamenti già all'inizio del XX secolo!", e aggiunge: "Come scrive Denis Clerc, senza cambiare in nulla il meccanismo del mercato (contrariamente a quanto avviene con le regolamentazioni vincolanti) e con una semplice correzione attraverso misure fiscali, diventava possibile far coincidere gli interessi privati e l'interesse sociale (o generale). Sullo stesso principio si basa il patto ecologico di Nicolas Hulot".(14)
L'idealista pseudo-riformista sta dunque smascherando la vera natura liberale e liberista di tali misure? Non proprio, perché Latouche sostiene che "spinte alle estreme conseguenze queste misure (compatibili con il liberismo, ndr) provocherebbero una vera e propria rivoluzione e permetterebbero di realizzare nella sua quasi totalità il programma di una società della decrescita".
La rivoluzione consisterebbe precisamente nell'"immaginario sociale che si mette al lavoro e si impegna esplicitamente nella trasformazione delle istituzioni esistenti, per un cambiamento sia della cultura sia delle strutture del diritto e dei rapporti di produzione". Per attuarla basterebbe "obbligare le imprese ad assicurarsi sui rischi e i danni che fanno gravare sulla società (rischio nucleare, rischio climatico, rischio Ogm, rischio delle nanotecnologie, rischio sanitario, rischio sociale - disoccupazione, rischio estetico)". Solo che avverte: "l'uomo politico che proponesse un programma del genere e che una volta andato al governo cominciasse ad applicarlo sarebbe assassinato nel giro di una settimana, perché per molto meno fu ucciso Salvator Allende". Per questo conclude: "Si possono immaginare diversi scenari di transizione dolce, con misure molto progressive finalizzate alle riduzioni necessarie".(15)

L'inconfessabile speranza: la fine della lotta di classe
Finalmente, dopo un così lungo peregrinare, ci viene in soccorso un paragrafo inequivocabile ed illuminante del "Trattato", dal titolo: "La decrescita è riformista o rivoluzionaria?" "La risposta - ripete ancora una volta Latouche - è che si tratta di una vera e propria rivoluzione. Va chiarito però che per noi, come per Cornelius Costaridis, rivoluzione non significa né guerra civile né spargimento di sangue. Questa violenza sembra tanto meno ineluttabile, anche secondo Andrè Gorz in quanto la civiltà capitalistica ...va inesorabilmente verso il crollo catastrofico; non è più necessaria una classe rivoluzionaria per abbattere il capitalismo, poiché esso scava la propria fossa e quella della civiltà industriale nel suo insieme.  È sotto gli occhi di tutti che, con il trionfo del capitale, la lotta di classe è finita. I vinti di questo scontro plurisecolare, anche se più numerosi che mai, sono divisi, destrutturati, deculturalizzati, e non costituiscono più una classe rivoluzionaria".(16)
È qui che casca l'asino! È in questo passaggio che è contenuto il succo vero, ultrareazionario, della sua teoria. È qui che si smaschera come un intellettuale di sinistra a parole, di destra nei fatti: uno squallido controrivoluzionario.
La fine della lotta di classe è tutto ciò che auspica il nostro esimio baronetto parigino. In cosa consisterebbe allora questa rivoluzione non violenta e non di classe? In un banalissimo "cambiamento di alcune istituzioni centrali della società attraverso l'azione della società stessa" che garantisca "l'autotrasformazione esplicita della società condensata in un tempo breve" attraverso "l'ingresso della gran parte della comunità in una fase di attività politica, e cioè costituente".
Il nostro parolaio è sprofondato dunque nella più volgare apologia della Reazione, quella che da sempre auspica l'impossibile, ossia la scomparsa della lotta di classe. Per Latouche infatti tutto ciò che si colloca a sinistra del suo insulso miscuglio di riformismo e conservatorismo, di riforme e controriforme, tutto ciò che è lotta di classe, viene fatto coincidere con il terrorismo! È esattamente quanto afferma alla fine del paragrafo: "il responsabile politico deve fare dei compromessi con l'esistenza del male. La ricerca del bene comune non è la ricerca del bene assoluto ma quella del male minore. Anche se il realismo politico non consiste nell'adeguarsi alla banalità del male ma nel contenerla all'interno dell'orizzonte del bene comune. Di conseguenza, qualsiasi politica non può che essere riformista, e deve esserlo, se non vuole sprofondare nel terrorismo".(17)  
Ebbene il marxismo-leninismo-pensiero di Mao sostiene esattamente l'opposto: il diritto alla rivoluzione è un diritto incancellabile, il più importante tra tutti i diritti politici del proletariato e dei popoli oppressi dall'imperialismo.
Mao ha brillantemente sintetizzato questo concetto con queste parole: "Nella società divisa in classi, le rivoluzioni e le guerre rivoluzionarie sono inevitabili, poiché senza di esse è impossibile compiere un salto nello sviluppo della società, è impossibile rovesciare le classi dominanti reazionarie e permettere al popolo di prendere il potere. I comunisti devono denunciare la propaganda menzognera dei reazionari, i quali affermano per esempio che la rivoluzione sociale non è necessaria, né realizzabile; i comunisti devono attenersi fermamente alla teoria marxista-leninista della rivoluzione sociale per aiutare il popolo a comprendere che la rivoluzione sociale non solo è assolutamente necessaria ma anche pienamente possibile''.(18)
E a proposito della vecchia teoria opportunista del "crollo pacifico del sistema capitalistico", non occorre dimostrare che tutta la vita e l'opera di Lenin, Stalin e Mao ci insegnano esattamente il contrario: "Se si vuol fare la rivoluzione - ci deve essere un partito rivoluzionario. Senza un partito rivoluzionario, senza un partito che si basi sulla teoria rivoluzionaria marxista-leninista e sullo stile rivoluzionario marxista-leninista, è impossibile guidare la classe operaia e le larghe masse popolari a sconfiggere l'imperialismo e i suoi lacché".(19)

Una panacea per gli intellettuali borghesi
Non deve stupire se, dopo avere definito la diagnosi del nostro statista impregnata di conservatorismo e liberismo (nonostante le venature anarchiche e ambientaliste), giudichiamo la sua terapia per i mali del mondo, nella migliore delle ipotesi, un palliativo. O meglio un comodo antidolorifico e sonnifero per quella parte della borghesia intellettuale che sta finalmente prendendo coscienza che il capitalismo, il modo di produzione che fin qui, in larga parte, ha contribuito a venerare, è l'inferno in terra per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Un comodo antidolorifico e sonnifero anche per la piccola borghesia ambientalista e di "sinistra" che sta finalmente prendendo coscienza che questo barbaro sistema economico sta conducendo il nostro pianeta, e tutte le specie che lo abitano, sull'orlo del baratro.
È chiaro infatti che Latouche si rivolge in primo luogo agli intellettuali borghesi, per i quali "il punto limite", non è lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a cui essi sono sottoposti talvolta solo in via indiretta, ma è la devastazione irreversibile del nostro meraviglioso pianeta.
La vera preoccupazione di Latouche è che una presa di coscienza ambientalista, per quanto interclassista, riesca a spostare una quota consistente di questa categoria di persone, quelle più coerenti e conseguenti, su posizioni sempre più radicali e propense alla rivolta, semmai in alleanza con le classi e i popoli oppressi, tenuto conto che un'altra quota non trascurabile sta già sprofondando nel pessimismo catastrofista.
Ecco allora spiegata la necessità che spinge la classe dominante borghese e i governi che ne gestiscono le sorti, ad inviare un esercito di eminenti accademici in loro soccorso, per ricondurli tutti ad un pacifico ottimismo, alla speranza in un mondo migliore che coinciderebbe in sostanza con la "liberazione della società occidentale dalla sua connotazione economicista". Liberazione che si otterrebbe attraverso un abbassamento drastico e generalizzato dei consumi.
Forse Latouche ignora che per i poveri questo programma è già in atto da molto tempo?
Molto tanto tempo fa Engels nell'opera "Anti-during" ha smascherato che questa apologia del "consumare meno" non è di per sé una rivendicazione ambientalista ed anti-capitalista: "Il sottoconsumo delle masse - spiega - è una necessità di tutte le forme sociali poggianti sullo sfruttamento è quindi anche della forma sociale capitalistica; però solo la forma capitalistica conduce a delle crisi. Il sottoconsumo delle masse è dunque anch'esso una condizione preliminare delle crisi ed in esse rappresenta una parte riconosciuta da molto tempo; ma tanto poco essa ci dice dell'esistenza attuale delle crisi, quanto poco ci dice sulle cause della loro assenza nel passato".

Cenni di economia marxista
La teoria illogica e "paradossale" di Latouche è risultata accattivante per molti partiti ambientalisti e neo-revisionisti europei. Verdi, Prc, Pdci, Sel ad esempio l'hanno inserita nei loro programmi interclassisti.
Sono "decrescisti" anche Maurizio Pallante, tra i fondatori nel 1998 del Comitato per l'uso razionale dell'energia (Cure) e già consigliere dell'ex ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, Mauro Buonaiuti, autore del libro "Obiettivo Decrescita", Andrea Masullo, responsabile dell'unità clima ed energia del WWF Italia e consiglio direttivo di ISES Italia, sezione dell'International Solar Energy Society. Sono fortemente de-crescisti anche il "movimento a cinque stelle" guidato da Beppe Grillo, la corrente filosofica e politica che fa capo all'ex neopodestà di Venezia, Massimo Cacciari, che ha pure organizzato un convegno internazionale, e i comboniani come Alex Zanotelli.
La teoria della decrescita ha fatto il suo ingresso nella campagna elettorale italiana (ad opera di Verdi e Prc) nel 2006 e poi nel dibattito politico francese nel 2007 (ad opera di Ives Cochet tra i Verdi e Jose Bovè).
Tra i nuovi adepti c'è Alberto Lucarelli, del movimento contro la privatizzazione dell'acqua, e oggi neo-assessore ai "beni comuni e alla democrazia partecipata" della giunta arancione di Napoli guidata da Luigi De Magistris, mentre tra i divulgatori più assidui delle teorie di Latouche si annovera oltre a "il manifesto" e "Liberazione", il settimanale "Carta".
Nel solco tracciato dal revisionismo socialdemocratico, anche il partito comunista revisionista Svizzero nell'ultimo congresso del Canton Ticino (2010) ha fatto propria questa teoria accreditandola come "la svolta necessaria": Nel testo, che cerca di accreditarla agli occhi della propria base come una teoria marxista, leggiamo: "Constatata l'insostenibilità per il pianeta di garantire a 7 miliardi di persone i livelli di consumi energetici e alimentari quali quelli praticati in Occidente ed ugualmente neppure garantire tali livelli di consumi a quel nuovo miliardo di cittadini dei paesi emergenti che si sta affiancando al primo miliardo di iperconsumatori dell'occidente auspichiamo una revisione totale e radicale del modello di sviluppo e di vita dell'occidente capitalista e l'adozione di misure per rallentare e invertire il corso del 'processo di accumulazione capitalistico'. Per arginare e mitigare le conseguenze derivanti da questa legge occorrerebbero politiche economiche centrate sulla teoria della 'decrescita': una delle poche prospettive anticapitaliste concrete nel mondo occidentale in declino, perché consente di colpire elementi vitali per il capitalista di accumulo di plusvalore. In pratica ciò significherebbe: sviluppare produzioni non intensive con distribuzione dei prodotti a breve distanza e risparmiando sul consumo energetico, favorire la piccola produzione indipendente, agire sul processo di circolazione delle merci e sui cicli di rotazione del Capitale, diminuendo la domanda e i prezzi, potenziare l'autonomia amministrativa, ecc.... Queste misure garantirebbero una democratizzazione dell'economia e una umanizzazione della globalizzazione".(20)
Di fronte a questi inganni, rivolgendoci principalmente alla base dei partiti che si definiscono comunisti, ricordiamo brevemente alcuni capisaldi del marxismo:  "lo scopo della produzione capitalistica - spiega Marx - è l'autovalorizzazione del capitale ossia l'appropriazione del plusvalore, la produzione di plusvalore, il profitto... il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto... il fenomeno è derivante dalla natura stessa della produzione capitalista...".
Le crisi economiche sono quindi inevitabili in quanto sono una delle conseguenze insopprimibili di questa legge: "il più superficiale esame della concorrenza mostra che in determinate condizioni, quando il capitalista più forte vuol farsi largo nel mercato e soppiantare i più deboli, come nei periodi di crisi, si vale in pratica di questo principio, cioè diminuisce deliberatamente il suo saggio del profitto per battere i suoi concorrenti minori... questa crescente concentrazione provoca a sua volta, non appena abbia raggiunto un certo livello, una nuova diminuzione del saggio del profitto. La massa di piccoli capitali frantumati viene trascinata sulla via dell'avventura; speculazione, imbrogli creditizi e azionari, crisi... se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico ed i rapporti di produzione sociale che gli corrispondono...".
Tornano quindi di scottante attualità le sferzanti critiche di Marx agli economisti borghesi dell'epoca: "Per quanto la legge appaia semplice... l'economia non è finora riuscita a scoprirla. Essa ha constatato l'esistenza del fenomeno e si è affaticata a spiegarlo in tentativi contradditori. Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l'economia politica si è adoperata dal tempo di Adamo Smith; la differenza tra le varie scuole da Smith in poi consiste nei diversi tentativi per giungere a tale soluzione. D'altro canto, se si considera che l'economia politica ha finora cercato a tentoni di formulare la differenza tra capitale costante e capitale variabile senza riuscirvi con precisione, che non ha fatto una distinzione tra plusvalore e profitto, né ha fatto mai un'esposizione del profitto puro distinto dai vari elementi che lo costituiscono e che sono resi reciprocamente indipendenti come profitto industriale, commerciale, interesse, rendita fondiaria; che non ha mai fatto un'analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale, e tanto meno della formazione del saggio di profitto: allora non sorprende più il fatto che essa non è mai riuscita a risolvere questo enigma".(21)
Se Marx ha scoperto e spiegato nel dettaglio genesi e conseguenze della legge del massimo profitto e della caduta tendenziale del saggio di profitto, Lenin ha scoperto e spiegato come, nella sua fase più avanzata di sviluppo, un'altra legge, da essa derivante, acquisti un'importanza decisiva: "... il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è, in linea generale, legge universale e fondamentale dell'odierno stadio dello sviluppo del capitalismo... Quando i cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica il capitalismo si è trasformato in imperialismo. I cartelli si mettono d'accordo sulle condizioni di vendita, i termini di pagamento, ecc., si ripartiscono i mercati. Stabiliscono la quantità di merci da produrre. Fissano i prezzi. Ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc... È sommamente istruttivo dare almeno uno sguardo all'elenco dei mezzi dell'odierna, moderna e civile 'lotta per l'organizzazione' a cui ricorrono i consorzi monopolistici. Essi sono: Privazione delle materie prime... (uno dei più importanti metodi coercitivi per far entrare nei cartelli), privazione della manodopera mediante 'alleanze' (cioè accordi tra organizzazioni di capitalisti ed operai per cui quest'ultimi si obbligano a lavorare per imprese cartellate), privazione dei trasporti,  chiusura di sbocchi, accaparramento di clienti mediante clausole di esclusività, metodico abbassamento dei prezzi allo scopo di rovinare gli 'autonomi', le aziende cioè che non si sottomettono ai monopolisti; si gettano via milioni vendendo per qualche tempo al di sotto del prezzo di costo... privazione del credito, boicottaggio. Questa non è più la lotta di concorrenza tra aziende piccole e grandi, tra aziende tecnicamente arretrate ed aziende progredite, ma lo iugulamento per opera dei monopoli, di chiunque tenti di sottrarsi al monopolio, alla sua oppressione, al suo arbitrio".
Sembra parlare a Latouche e ai moderni teorici no-global-new global quando afferma: "che i cartelli eliminino le crisi è una leggenda degli economisti borghesi, desiderosi di giustificare ad ogni costo il capitalismo. Al contrario il monopolio... accresce ed intensifica il caos, che è proprio dell'intera produzione capitalistica nella sua quasi totalità. Si accresce ancora più la sproporzione tra lo sviluppo dell'agricoltura e quello dell'industria, che è una caratteristica generale del capitalismo..." e aggiunge: "la nostra rappresentazione della forza reale e dell'importanza dei moderni monopoli sarebbe assai incompleta, insufficiente ed inferiore alla realtà, se non tenessimo in conto della funzione delle banche".(22)
Non occorre insistere oltre sulla incompatibilità tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la teoria della "decrescita". Oggi siamo ancora nell'epoca dell'Imperialismo che è "un particolare stadio storico del capitalismo. E questa particolarità è triplice: l'imperialismo è 1) - capitalismo monopolistico; 2) - capitalismo parassitario e imputridente; 3) - capitalismo morente. A partire dal 1917 se ne è avuta la conferma in tutto il mondo: l'imperialismo è la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato".(23)
Fin dalla sua nascita il PMLI ha saldamente afferrato questo concetto a cui è inscindibilmente legata la seguente convinzione: è impossibile cambiare il mondo senza avere una piattaforma strategica che metta al centro la madre di tutte le questioni, ossia, paese per paese, la presa, sull'esempio dell'Ottobre sovietico, del potere politico da parte del proletariato.

L'ambientalismo dei marxisti-leninisti
Purtroppo Latouche non conosce nulla della teoria e della pratica marxista-leninista, né tanto meno delle esperienze storiche di socialismo realizzato. Arriva ad affermare che "non prendendo in considerazione i limiti ecologici la critica marxista rimane prigioniera di una terribile ambiguità".
La verità è un'altra. Marx, a differenza di Latouche partiva da un'analisi di classe della società capitalistica, e già nella seconda metà dell'800 aveva impostato il problema della relazione tra ecologia ed economia in tutt'altra maniera.
Ad esempio trattando delle conseguenze "ecologiche" dell'esodo delle popolazioni operaie nelle grandi città, già denunciate da Engels nell'opera "la situazione della classe operaia in Inghilterra", nel I libro del Capitale, spiega: "il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell'originale vincolo di parentela che legava agricoltura e manifatture, turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall'uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l'eterna condizione di una durevole fertilità del suolo".(24)
Delineando, tra gli altri, i compiti ecologici del mondo nuovo, socialista, che sorgerà dalle macerie del capitalismo Engels già nel 1878 osservava: "La città industriale - che è condizione fondamentale della produzione capitalistica - trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo. Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano, può permettere all'industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione, e rispettivamente all'utilizzazione degli altri elementi della produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l'attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie. La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un'eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica".(25)
Qualche decennio più tardi l'impulso e l'ispirazione di Lenin hanno consentito all'ecologia e alla conservazione della natura di sperimentare nella gloriosa Urss un periodo di progressi e di risultati straordinari, all'avanguardia a livello mondiale, laddove l'urgenza di incrementare le forze produttive del paese si accompagnava a una chiara consapevolezza della necessità di rispettare le leggi naturali.
Lenin riuscì persino ad istituire il primo parco nazionale alle foci del Volga quando era assediato dall'esercito bianco ad Astrakan!
All'indirizzo ai delegati comunisti del Consiglio centrale panrusso dei sindacati dell'aprile 1919 scrive: "Per proteggere le fonti delle nostre risorse dobbiamo agire in accordo con le leggi scientifico-tecniche. Per esempio, trattando del rendimento delle nostre foreste, dobbiamo stare attenti che l'industria forestale agisca correttamente. Trattando del petrolio, dobbiamo attrezzarci per prevenire gli sprechi. È necessario insomma sforzarsi di applicare le leggi scientifico-tecniche e un criterio di sfruttamento razionale".(26) 
Il 16 settembre 1921 firmò il decreto "Sulla protezione dei monumenti della natura, i giardini e i parchi", che divenne immediatamente legge dello Stato socialista. Punto qualificante: l'attribuzione al Commissariato all'istruzione delle competenze in materia di protezione della natura e della facoltà di istituire parchi nazionali (zapovedniki) in qualsiasi parte del territorio della nazione giudicato di particolare valore ambientale, scientifico o storico-culturale, con la proibizione di ogni attività economica (caccia, pesca, persino prelievo di uova o di piante, ecc.) non espressamente autorizzata.
Al grande artefice della Rivoluzione d'ottobre erano ben chiare le cause delle catastrofi ambientali e sanitarie del capitalismo, dal depauperamento dei suoli ad opera delle tecniche capitalistiche di coltivazione alla gestione delle industrie che compromettono la salute dei lavoratori e comportano l'inquinamento delle città e dei fiumi. La soluzione socialista di questi problemi consisteva innanzitutto nella grande opera di collettivizzazione delle terre che comprende l'utilizzo di tecniche di coltivazione attente a preservare la fertilità dei suoli ("sostenibili", diremmo oggi), consisteva anche nel dare centralità e potere al governo democratico (democrazia diretta) del territorio attraverso i Soviet, consisteva in ultima analisi nella politica volta all'eliminazione progressiva dell'antagonismo fra città e campagna, tra industria e agricoltura.
Nel corso dell'avvio del processo combinato di elettrificazione e di collettivizzazione dell'industria e dell'agricoltura osservava: "Nelle grandi città gli uomini sono soffocati, secondo l'espressione di Engels, dal fetore dei loro propri rifiuti  e tutti coloro che possono fuggono periodicamente dalla città alla ricerca di aria fresca e di acqua pura. Anche l'industria si dissemina per tutto il paese, perché anch'essa ha bisogno di acqua pura. Lo sfruttamento delle cascate, dei canali e dei fiumi per produrre energia elettrica darà nuovo impulso a questa 'dispersione' dell'industria.
Lenin ha affrontato da pioniere anche il problema scottante dei rifiuti: "l'utilizzazione razionale dei rifiuti della città in generale, e degli escrementi umani in particolare, tanto importanti per l'agricoltura, esige anch'essa la soppressione dell'antagonismo tra città e campagna".(27)
Sono solo degli esempi circa i numerosissimi insegnamenti di Lenin, anche in campo ambientale.
Nel 1959, intervenendo al congresso dell'Associazione per la protezione della natura dell'Urss, Vera Aleksandrovna Varsonofeva, che vi aveva lavorato fin dai primi anni venti, così ricordò l'impegno di Lenin a favore della protezione della natura: "Lenin sapeva bene che con lo sviluppo del giovane Stato socialista sarebbe stato necessario un gigantesco sfruttamento delle risorse naturali ma egli sapeva altrettanto bene che per uno sfruttamento appropriato era essenziale comprendere tutte le complicate interrelazioni che esistono fra le varie parti della natura... Sulla base di questa comprensione si sviluppò il grande programma scientifico che venne attuato negli zapovedniki. L'associazione per la protezione della natura, nella sua forma originaria, partecipava largamente al lavoro scientifico".(28)
Per quanto riguarda la Cina di Mao ricordiamo la collettivizzazione delle terre, e una ancora più oculata soluzione delle contraddizioni tra entroterra e zone costiere, tra agricoltura, industria leggera e industria pesante, nonché del problema del controllo demografico delle nascite, e dell'affollamento delle città.
Ricordiamo anche la lotta contro "i tre rifiuti" che caratterizzarono la Grande rivoluzione culturale proletaria, laddove i temi dei rapporti uomo-natura trovarono largo spazio anche nel grandioso movimento delle Comuni popolari, nelle quali tutte queste contraddizioni venivano discusse e affrontate, praticamente, in ogni angolo del paese.
Se quindi Latouche avesse studiato senza pregiudizi queste esperienze avrebbe compreso che sia nell'Urss di Lenin e Stalin sia nella Cina di Mao il bisogno di pianificare lo sviluppo economico e sociale non era più un bisogno inconciliabile con quello di pianificare la tutela ambientale, la preservazione della salute, degli equilibri ecologici e delle fonti energetiche ed alimentari della popolazione.
Non è un caso se i più grandi misfatti ambientali sono stati tutti compiuti proprio dai nemici del socialismo, i revisionisti.
Fu l'Urss socialimperialista e fascista di Kruschov, di Breznev e dei loro successori a provocare l'inquinamento del Lago Bajkal, la morte del Mare d'Aral, il disastroso progetto di invertire il corso dei fiumi siberiani, la catastrofe nucleare di Chernobyl. Ed è stata la cricca revisionista e fascista al potere da trent'anni a Pechino che ha trasformato la Cina in uno spaventoso inferno di sangue e di smog, come testimoniano le condizioni di vita e di lavoro in una sconfinata megalopoli come la odierna Shangai.
Seguire la via revisionista significa seguire la via capitalistica, avvertiva Mao, seguire la via capitalistica significa tornare allo sfruttamento irrazionale delle risorse e del territorio, alla devastazione delle aree vergini, ad uno sviluppo economico la cui logica riflette soltanto le miopi priorità delle cricche di burocrati borghesi che hanno occupato il potere a livello centrale e locale.

Conclusioni
La teoria delle "decrescita serena" di Latouche regala una giustificazione teorica ed una altrettanto teorica via d'uscita al capitalismo, ai suoi monopoli e alle sue spaventose crisi cicliche, come quella attuale.
Questa teoria sta trovando cittadinanza in varie correnti ecologiste, revisioniste, trotzkiste, spontaneiste, movimentiste e anarchiche del movimento no-global, ed è parte integrante delle teorie della non violenza e della democrazia partecipata. Essa sparge illusioni sulle possibilità di controllo della "società civile" sull'operato degli Stati, delle imprese e sul funzionamento del mercato, auspica il dialogo e la partecipazione di economisti e teorici dell'ecologia alle istituzioni borghesi e alle organizzazioni e alleanze imperialiste appositamente riformate per accogliere tale partecipazione e per operare nell'interesse sovranazionale, globale, interclassista, dei popoli e dell'umanità nel suo complesso.
Il rilancio di questa teoria dimostra anche quanto sia caduta in basso, e indietro nel tempo, l'economia borghese moderna, la quale, come se Marx non fosse mai esistito, rispolvera dagli scantinati e si riallaccia alle tesi del socialismo utopistico dei filosofi premarxisti, alle rivendicazioni riformiste degli intellettuali e degli scienziati dell'ecologismo-interclassista del primo Novecento, fino a concedere una nuova sponda persino al conservatorismo misericordioso della Chiesa cattolica, con le illusioni di "Terze Vie" e le sue nostalgie del medioevo feudale.
Il suo vizio di fondo consiste nel rifiuto di prendere in considerazione le contraddizioni principali del capitalismo e dell'imperialismo.
Per non dover ammettere che sono tutte contraddizioni inconciliabili e irrisolvibili senza una rottura rivoluzionaria che conduca in ogni paese alla distruzione dell'economia capitalistica ed alla costruzione al suo posto di una economia socialista pianificata.
Per non dover ammettere che solo un partito rivoluzionario che rigetti il riformismo e il pacifismo imbelle ha le potenzialità per attuare una simile rottura e successivamente ha le potenzialità di guidare una politica economica produttiva e che sia nelle stesso tempo al servizio dei bisogni ambientali a breve, medio e lungo termine del proletariato e delle larghe masse popolari.
Per non dovere ammettere che questa politica economica può discendere solo da uno Stato che non sia più al servizio di una minoranza di pescecani e di sfruttatori, e che un simile Stato può sorgere solo se sulle macerie dell'imperialismo e dello Stato borghese, che è invece, sempre e dovunque, uno strumento di oppressione di classe di una infima minoranza di nemici del popolo.
Infine per non dover ammettere che solo la nascita di Stati proletari e socialisti in tutto il mondo, può tutelare effettivamente e integralmente il benessere psico-fisico e sociale dei popoli e preservare il nostro pianeta dalla distruzione causate dall'inquinamento, dalla devastazione della sua base vitale (l'acqua e l'agricoltura), dalle guerre di rapina.
Questi disastri sono tutti figli del modo di produzione e di scambio capitalistico e imperialistico, il quale consiste per l'appunto nell'oppressione della maggioranza della popolazione da parte di una infima minoranza di sfruttatori di uomini e risorse vitali.
Nessuna controriforma, nessuna riforma, nessuna ecotassa, può cambiare la natura del capitalismo, né fermare il processo di distruzione del mondo, esso può essere salvato solo con le rivoluzioni proletarie e le guerre di liberazione nazionale, a seguito delle quali è possibile instaurare nuovi rapporti tra l'economia, la politica energetica e la difesa dell'ambiente.
Occorre in questo senso studiare la politica economica, sociale, ambientale e demografica socialista sviluppata dall'Urss di Lenin e Stalin e dalla Repubblica popolare cinese finché fu in vita Mao, in particolare in riferimento ai provvedimenti per assicurare la nazionalizzazione delle banche, la socializzazione dei mezzi di produzione, la collettivizzazione delle terre, risolvere la contraddizione tra città e campagna, tra industria e agricoltura, tra industria leggera e industria pesante, tra produzione, bisogni e consumi.
Queste esperienze hanno dimostrato concretamente che il socialismo è la società a cui devono guardare i no-global e gli ambientalisti coraggiosi e conseguenti.  
Mao, facendo il bilancio dell'esperienza della dittatura del proletariato in Cina e nel mondo, ha detto: "Le contraddizioni della società capitalista si manifestano con antagonismi e conflitti acuti, con un'accanita lotta di classe e non possono essere risolte dallo stesso regime capitalistico, ma soltanto dalla rivoluzione socialista".(29) Noi siamo d'accordo con Mao: "Il nostro scopo è di estirpare il capitalismo, di estirparlo su tutto il globo, di farlo diventare un oggetto storico. Tutto quello che appare nel corso della storia dovrà sempre essere eliminato. Non c'è cosa o fenomeno nel mondo che non sia prodotto della storia; alla vita succede sempre la morte, il capitalismo è un prodotto della storia, deve, dunque, morire, c'è un ottimo posto sottoterra per 'dormire' che lo aspetta".(30)
Il disastro dei rifiuti tossici con cui le holding mafiose capitaliste hanno assassinato le zone agricole del Mezzogiorno, i disastri petroliferi che hanno devastato il Golfo del Messico e la Nuova Zelanda, l'ecatombe ambientale causata dall'esplosione dei reattori nucleari di Fukushima, così come gli effetti sempre più evidenti della coltre di anidride carbonica che soffoca l'atmosfera, ci spingono ad invitare tutti i sinceri ambientalisti a confrontarsi ed unirsi a noi al più presto, semmai in un fronte unito, affinché possa celebrarsi quanto prima questo salvifico funerale, in Italia e nel mondo intero.
Occorre dire: "Basta con il capitalismo. Ci vuole il socialismo!".

 
NOTE
1 N.G. Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, 1971.
2 Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo,
3 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008, pag. 27
4 Ibidem, pag.31
5 Ibidem, pag. 17
6 S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007, pag 95
7 I. Illich, le Gerne vernaculaire, in Opere complete, vol.2 Fayard, Paris, 2005, p.192.
8 S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, 2011, pag 55-56
9 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008, pag. 33
10 Ibidem, pag. 18
11 Ibidem, pag. 18
12 Ibidem, pag. 98
13 Ibidem, pag. 85-86
14 Ibidem, pa. 90
15 Ibidem, pag. 91
16 Ibidem, pag. 81
17 Ibidem, pag. 81
18 Mao, Sulla contraddizione, agosto 1937 - Opere scelte, vol. 1, p. 362
19 Mao, Forze rivoluzionarie di tutto il mondo unitevi, per combattere l'aggressione imperialista, 1948, Opere scelte, Casa editrice in lingue estere - Pechino, vol. 4°, p. 292
20 PC Svizzero del Canton Ticino, Documento congressuale, 2010
21 Marx, il Capitale, libro I
22 Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo
23 Lenin, Articolo pubblicato sul n. 4 del 1952 della rivista sovietica "Voprosy ekonomiki".
24 Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra
25 Lenin, Discorso all'indirizzo ai delegati comunisti del Consiglio centrale panrusso dei sindacati - aprile 1919
26 Lenin,  La questione agraria.
27 Lenin, La questione agraria
28 Intervista a Vera Aleksandrovna Varsonofeva in D.R. Weiner, A Little Corner of Freedom, p. 197.
29 Mao, Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo - 27 febbraio 1957 - opere scelte - vol. V
30 Mao, Il dibattito sulla cooperazione agricola e l'odierna lotta di classe - 11 ottobre 1955 - opere scelte - vol. V
 
11 gennaio 2012