Allora a capo del governo c'era Ciampi L'ammissione dell'ex ministro della giustizia avvalora la tesi della trattativa Stato-mafia Conso sospese il carcere duro per i mafiosi Ciampi perché tace? La trattativa fra Stato e mafia, accompagnata nel 1992 dalle stragi di Capaci e via D'Amelio prima, dalle bombe del '93 (tra cui quella sanguinosissima di via Dei Georgofili a Firenze) poi, a cui si sono riferiti di recente i sibillini messaggi dei fratelli Graviano "a chi non ha mantenuto gli impegni" (Berlusconi e Dell'Utri ndr), non solo c'è stata ma, nel novembre del 1993, diede anche i suoi "frutti" con la piena attuazione, da un lato, di un preciso disegno eversivo volto ad aprire la strada ad un "nuovo soggetto politico" che non è difficile identificare con Forza Italia di Berlusconi e Dell'Utri e, dall'altro lato, con la revoca del carcere duro, il cosiddetto 41-bis, da parte del governo Ciampi per almeno 140 boss mafiosi. La conferma questa volta viene da un'"autorevole" fonte governativa, ossia dall'ex Guardasigilli Giovanni Conso: l'insigne giurista di matrice cattolica, già presidente della Consulta, piazzato da Ciampi al dicastero Grazia e Giustizia, che nel verbale d'interrogatorio del 24 settembre 2002 reso al Pm di Firenze, Gabriele Chelazzi, che indagava sulla strage dei Georgofili, e finora coperto dal segreto istruttorio, ricostruisce gli inconfessabili retroscena che hanno caratterizzato quell'oscura stagione di sangue. Conso mette a verbale che, sette mesi dopo la strage Borsellino, alcuni vertici delle istituzioni avevano fretta di revocare il carcere duro ai mafiosi e che la questione fu affrontata addirittura durante la riunione del comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza del 12 febbraio '93. La conferma è contenuta in un successivo documento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) del 6 marzo 1993 "numero 115077" genericamente intestato "Organizzazione e rapporti di lavoro" che l'allora direttore Nicolò Amato inviò proprio a Conso per sollecitare la revoca del carcere duro per i capimafia detenuti. Tra le 75 pagine del documento spicca in modo particolare la numero 59 in cui Amato senza mezzi termini afferma: "Appare giusto ed opportuno rinunciare ora all'uso di questi decreti". A tal proposito, il direttore del Dap indica anche due possibili strade da seguire: "Lasciarli in vigore fino alla scadenza senza rinnovarli, ovvero revocarli subito in blocco. Mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione" in quanto, aggiunge Amato: "L'emanazione dei 41 bis era giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa una risposta. Ma non vi è dubbio che la legge configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo". Non solo. Più avanti, Amato sottolinea che non si tratta solo di un'iniziativa del Dap precisando fra l'altro che: "Anche in sede di Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza, nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse, particolarmente da parte del capo della polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente - prosegue il direttore - da parte del ministero dell'Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano". Su queste basi - ha riferito ancora Conso - e in seguito alla strage di via Dei Georgofili, avvenuta nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze, e dopo le bombe di Milano e Roma del 27 e 28 luglio successivi, il 4 e il 6 novembre decisi di "Non firmare la proroga del 41 bis ai boss mafiosi detenuti per evitare altre stragi". Mentre per quanto riguarda Nicolò Amato, c'è da aggiungere che egli proprio in quei mesi fu protagonista di un'altra a dir poco inquietante vicenda: a giugno '93, quindi subito dopo aver perorato la causa dell'abolizione del 41-bis, viene improvvisamente rimosso dalla direzione del Dap, torna alla sua professione di avvocato e "guarda caso" assume proprio la difesa dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, sotto processo per associazione mafiosa e di altri boss di Cosa Nostra come Giuseppe Madonia di Caltanissetta. Insomma altro che "linea della fermezza" contro i boss mafiosi detenuti in regime di carcere duro come hanno sostenuto tutti i politici che fino ad oggi sono stati interrogati dai magistrati e dalla commissione parlamentare Antimafia. Le ammissioni di Conso costituiscono una clamorosa conferma delle recenti dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso e del procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, e svelano che effettivamente la trattativa Stato-mafia, riassunta nel famigerato "papello" custodito dall'ex sindaco Vito Ciancimino, su cui indaga la procura di Palermo e a cui hanno più volte alluso il figlio di Vito, Massimo Ciancimino, la vedova Epifania Silvia Scardino e diversi "pentiti", non solo c'è stata, ma è stata portata a compimento e ha coinvolto i massimi vertici politici e istituzionali borghesi. Di fronte a tutto ciò, appare a dir poco ridicolo il tentativo di Conso di minimizzare e ridurre il tutto a " una iniziativa personale ". Anzi ora più che mai l'ex ministro deve andare fino in fondo e spiegare perché a fine ottobre '93 egli passò repentinamente dalla "linea della fermezza" al cedimento totale a favore dei boss mafiosi, nonostante che al vertice del Dap Amato fosse stato sostituito con Adalberto Capriotti il quale in un appunto del 26 giugno tornava invece a sottolineare la necessità di rinnovare tutti i 41-bis in scadenza il 1° novembre successivo. L'ex ministro deve soprattutto cominciare a fare i nomi e dire chi e che cosa lo convinse in pochi mesi a revocare il carcere duro ai mafiosi. Anche perché l'ex Gardasigilli è solo l'ultimo, in ordine di tempo, dei massimi vertici politici e istituzionali ad essere chiamato in causa nel criminale intreccio politico-mafioso. Tutti gli altri, a cominciare dall'ex presidente del Consiglio dell'epoca e poi presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, si sono sempre trincerati dietro il più stretto silenzio e i classici "non ricordo", "non ero a conoscenza". L'allora ministro degli Interni Nicola Mancino (DC), ex vicepresidente del Csm, il suo predecessore Claudio Martelli (PSI), il primo governo di Giuliano Amato in carica dal 28 giugno 1992 al 28 aprile 1993, l'ex presidente della commissione Antimafia Luciano Violante (PCI-PDS) e l'attuale capo della polizia Gianni De Gennaro. Possibile che nessuno abbia niente da dire? Una decisione di quella portata non poteva essere presa per "iniziativa personale" di un solo ministro ma presupponeva il consenso al massimo livello del governo e delle istituzioni, anzitutto dell'allora presidente del Consiglio Ciampi. 9 dicembre 2010 |