Depositate le motivazioni della sentenza: omicidio plurimo I vertici della Thyssenkrupp sapevano del rischio di incendio ma non vollero prevenire e intervenire Dopo un procedimento penale durato tre anni complessivamente tra inchiesta (guidata da un pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello) e processo penale, il 15 aprile 2011 la seconda corte d'assise di Torino ha condannato Harald Espenhahn, amministratore delegato del gruppo tedesco, a 16 anni e 6 mesi di reclusione. Altri cinque manager dell'azienda (Mario Pucci, Gerald Priegnitz, Daniele Moroni, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri) sono stati condannati a pene che vanno da 13 anni e 6 mesi a 10 anni e 10 mesi. A metà novembre sono state depositate le motivazioni della sentenza dove emerge con chiarezza che i vertici della ThyssenKrupp sapevano che si potesse sviluppare un incendio, ma che non fecero nulla per evitarlo, accettando il rischio, che poi si concretizzò nella realtà, che ci potesse rimettere la vita qualche lavoratore delle acciaierie. Una "scelta sciagurata", come l'hanno definita i giudici torinesi, da parte dei criminali vertici dell'azienda capitalistica tedesca che ha portato alla condanna per il reato di omicidio doloso (ad Espenhahn) e omicidio colposo (agli altri dirigenti) plurimi. La pena complessiva a carico degli imputati si estende anche al fatto che vi era stata una "rimozione e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro", nonché l'incendio colposo aggravato. In sostanza, secondo la Corte di Assise, Espenhahn decise di non fare nulla per la sicurezza degli incendi confidando nei suoi collaboratori, "decidendo di azzerare qualsiasi intervento di 'fire prevention' e di continuare la produzione in quelle condizioni". Perché per l'impianto torinese era già prevista la chiusura, con trasferimento della produzione nello stabilimento di Terni. La situazione complessiva e "gli elementi di conoscenza ed all'alto grado della consapevolezza" dell'amministratore delegato inducono "la Corte a ritenere che certamente Espenhahn si fosse 'rappresentato' la concreta possibilità, la probabilità del verificarsi di un incendio, di un infortunio anche mortale sulla linea 5 di Torino, e che altrettanto certamente, omettendo qualsiasi intervento di 'fire prevention' in tutto lo stabilimento e anche sulla linea 5 e anche nella zona di entrata della linea 5, ne avesse effettivamente accettato il rischio". Il fatto che la ThyssenKrupp voleva dismettere in vista di una chiusura era ben chiara ed Espenhahn, si legge in sentenza, sapeva "che lo stabilimento di Torino fosse privo del certificato di prevenzione incendi" sebbene rientrasse tra le industrie a "rischio di incidente rilevante". L'amministratore delegato sapeva "in modo approfondito e dettagliato le reali condizioni di lavoro nello stabilimento di Torino e cosi gli impianti, il tipo e il volume delle lavorazioni, gli addetti, i responsabili locali Salerno e Cafueri, le misure antinfortunistiche e antincendio presenti, la gestione e la formazione del personale, la riduzione di quest'ultimo - soprattutto di quello con maggiore preparazione professionale, le carenti pulizia e manutenzione, i frequenti incendi". Si tratta, spiega il giudice estensore di "omissioni costituenti specifica violazione della normativa antinfortunistica", normativa che doveva essere controllata da Salerno ma anche dall'amministratore delegato perché "direttamente sotto la sua responsabilità". La scelta del pescecane capitalista e dei suoi servi è stata quindi razionale, consapevole, perché "con le sue competenza, preparazione ed esperienza, avendo a disposizione tutto il quadro conoscitivo sopra richiamato", che va dal processo produttivo agli allarmi sul rischio incendio, Espenhahn "decide di non investire nulla, di non effettuare alcun intervento di 'fire prevention' nello stabilimento di Torino, neppure sulle linee di ricottura e decapaggio, neppure sulla linea 5". Insomma, continuano, "non si può certo ritenere (...) che tale decisione sia stata presa con leggerezza o non meditata o in modo irrazionale". Quella della Corte di Assise di Torino è stata una sentenza storica e ancora più importanti sono le sue motivazioni. Ma si tratta di un sasso nel lago sterminato degli incidenti sul lavoro dove il padrone la fa franca il più delle volte, mentre ai familiari non rimane un centesimo ed enormi sofferenze morali (e non solo) per andare avanti, soprattutto per i nuclei monoreddito. Bisogna andare al di là delle aule di giustizia ed estendere la coscienza e la lotta per la sicurezza nei luoghi di lavoro che, in ultima analisi, si lega con la lotta contro il capitalismo e tutto ciò che rappresenta. 14 dicembre 2011 |