La tigre di Benigni fa le fusa agli invasori dell'Iraq È uscito di recente, in ben 800 sale cinematografiche, l'ultimo film di Roberto Benigni: "La tigre e la neve". Nessuno ha rischiato di non essere a conoscenza di questo "evento", data la massiccia campagna pubblicitaria, abbondantemente condita anche dalle numerose apparizioni ed interviste televisive dello stesso regista-attore, che ha preceduto l'uscita del film. Il film racconta in chiave favolistica la storia di un poeta che insegue la sua amata in Iraq dove si è recata, proprio allo scoppio della guerra d'aggressione Usa nel marzo 2003, per la stesura di un libro su un poeta iracheno. Là viene gravemente ferita in seguito allo scoppio di una bomba; finisce in coma e viene ricoverata in un ospedale iracheno, dove non hanno il necessario per curarla. Il film è dunque il racconto delle peripezie del poeta alla ricerca disperata, in quel martoriato Paese devastato e privo di tutto, delle medicine che possano salvarle la vita. La visione di questo film non può non provocare un sincero sentimento di insofferenza, irritazione e rabbia, almeno in tutti coloro che non sono aprioristicamente disposti a firmare una cambiale in bianco a Benigni, qualunque cosa dica o faccia. Secondo le dichiarazioni l'intenzione dell'autore era quella di fare un film poetico, sulla forza dell'amore che a suo dire sarebbe superiore a qualsiasi altra cosa, specialmente rispetto alla tragicità e futilità della guerra. Egli invece, con "La tigre e la neve", ha completato la parabola discendente iniziata con "La vita è bella", che lo ha portato, oramai in via definitiva, ad abbandonare la dissacrante vena satirica che lo aveva caratterizzato precedentemente. Se Benigni voleva girare una love-story, padrone lui; nessuno glielo avrebbe impedito, al massimo si sarebbe potuto dire che il tema non era originale. Ma quello che fa riflettere e indignare è il fatto che lui abbia ambientato la sua storiellina, in coscienza veramente puerile e melensa, in un Paese aggredito e martoriato come l'Iraq. Certamente coloro che hanno sinceramente a cuore le sorti di quel popolo e che hanno manifestato in tutti i modi contro l'invasione e l'occupazione imperialista anglo-americana (alla quale sta partecipando anche l'Italia del governo Berlusconi), ben volentieri avrebbero visto un film di Benigni contro tale aggressione. Ma egli si è ben guardato dal far ciò. Ha fatto tutt'altra operazione: ha presentato i soldati americani, in fondo, come dei bonaccioni. Essi infatti nella scena madre del film, pur imbracciando con aria feroce fuciloni e mitra, di fronte a lui imbottito di garze e flaconi di medicinali da sembrare un kamikaze, anziché sparargli subito una raffica e spianarlo, come fanno di solito anche con donne, anziani e bambini, considerando la vita degli iracheni meno di quella degli scarafaggi, alle sua grida di essere un poeta, si bloccano immediatamente poi si inteneriscono e lo lasciano libero. È nota infatti la predisposizione genetica dei marines per la poesia; essa è infatti l'attività umana a cui sono più sensibili e a cui si dedicano tra un bombardamento e l'altro. Il succo mistificatorio di questa scena viene spiegato da Benigni in una intervista in cui, riguardo ai militari Usa, egli dice di non volerli giudicare in quanto "essi sono spesso ragazzi poveri senza lavoro e senza futuro, provo pietà per loro"; che assurdità! Come se l'essere poveri assolvesse automaticamente dal partecipare come mercenari-killer ad una guerra di aggressione imperialista! Risulta invece evidente da queste parole e dal contenuto del film a cosa mira Benigni, il cui cuore in realtà sembra battere ormai solo per i miliardi: ossia a ingraziarsi e a compiacere il pubblico e quindi i distributori americani, e non a caso è stato premiato e consacrato divo negli Usa con l'Oscar per "La vita è bella". Film nel quale, commettendo con evidente ruffianeria un vero falso storico, aveva presentato i soldati americani come i liberatori di Auschwitz (che invece, com'è noto, fu liberata dall'Armata Rossa di Stalin). Si dice anche che "La tigre e la neve" sia stato visionato preventivamente dai distributori americani per verificare che non ci fossero scene che potessero risultare "sgradite" al pubblico d'oltreoceano. Non sappiamo se sia vero, ma certo, dopo aver visto il film, la cosa sembra verosimile. Egli non ci ha risparmiato neppure la conferma della sua ormai assodata trasformazione da mangiapreti in baciapile ("Sono cattolico, sono cresciuto al suono delle campane...", quanto sono lontani i tempi del suo irriverente " Wojtylaccio!"). E così, al culmine di una scena che vorrebbe essere commovente, ma riesce a essere solo grottesca, recita il "Padre nostro" per implorare la guarigione della sua amata. Dimostrando così una sospetta sintonia con i vari leader rinnegati e falsi comunisti che di questi tempi fanno a gara nel vantare la loro fede; o, come minimo, ci informano di essere alla ricerca di dio. E non basta comunque riempirsi la bocca della parola "poesia", come fa Benigni nei suoi ormai dilaganti sproloqui sull'amore, o ricorrere a dotte citazioni letterarie, per comunicare veramente qualcosa di poetico. Come assurdo e patetico risulta il tentato accostamento, suggerito da qualcuno, dell'omino benignesco all'altro omino, quello chapliniano, lui sì, veramente poetico e immortale. Nonostante che Benigni cerchi di scopiazzare abbondantemente il grande artista come nella scena finale ripresa da "Luci della città". Da sottolineare a questo riguardo che mentre Benigni è stato premiato dall'establishment americano, Chaplin dovette emigrare in Europa in quanto tacciato di essere comunista e antiamericano, in tempi in cui in America tale definizione era veramente il peggio che potesse capitare ad un artista. Benigni fa il furbetto e si vede, (sempreché lo si voglia vedere, beninteso), dicendo di non poter dire col suo film "cose intelligenti" sulla politica, sulla guerra, su Bush , poiché, "come dice Fellini", gli artisti sarebbero come i sonnambuli che non sanno quale strada percorrono e se li svegli paiono degli idioti spaesati: "io faccio cinema mica comizi", e poi "volevo fare un film sull'amore che è più forte anche della guerra", ha aggiunto a giustificazione del suo qualunquismo. E infatti, con la scusa della poesia, non ci ha pensato nemmeno lontanamente a fare quel che fece Chaplin nell'immortale "Il grande dittatore", che mise alla berlina con la sua graffiante e corrosiva parodia di Hitler e Mussolini l'aberrante ideologia di cui essi erano portatori! Benigni ha invece perso una grande occasione: parlando di Iraq aveva a portata di mano Bush, l'Hitler dei nostri tempi, e Berlusconi, l'emulo di Mussolini. Ma i loro nomi non vengono evocati nemmeno per caso. E allora avrebbe fatto molto meglio a usare un altro soggetto invece che l'Iraq. Invece, con questo film, egli conferma che il suo ruolo è ormai quello di inoffensivo e comodo giullare del potere borghese. Non a caso ha risposto con una battuta elusiva alla domanda se era vero che Berlusconi gli avesse telefonato per congratularsi con lui. Un giullare buono sia per la destra che per la "sinistra" di regime che lo incensano continuamente. 3 novembre 2005 |