Sentenza dei giudici di Firenze La trattativa tra Stato e mafia c'è stata. L'ha iniziata lo Stato Tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, Cosa nostra individuò nuovi interlocutori in Berlusconi e Dell'Utri La trattativa tra Stato e mafia non è più soltanto un'ipotesi investigativa da dimostrare, ma da oggi è un fatto processualmente accertato. Lo hanno stabilito i giudici della Corte di assise di Firenze nelle motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo emessa il 5 ottobre scorso a carico del boss palermitano Francesco Tagliavia, per le stragi che nel 1993 insanguinarono Roma, Firenze e Milano, causando 10 morti tra cui due bambine, e per le quali sono già stati condannati in via definitiva, anche sulla base delle rivelazioni del pentito Spatuzza, altri 15 boss mafiosi, tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano e Giuseppe Graviano. "Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia", scrivono infatti i giudici di Firenze. Dunque, non solo la trattativa ci fu e questo è un fatto giuridicamente accertato e sancito in una sentenza ma, cosa ancor più grave, fu avviata su espressa richiesta dello Stato e non della mafia. Ad incaricarsene, sempre secondo i giudici, fu l'allora colonnello dei carabinieri Mario Mori, previa esplorazione condotta dal capitano De Donno, all'indomani della strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. La trattativa faceva capo allo stesso Riina, tramite la mediazione di Vito Ciancimino. L'obiettivo che le istituzioni si prefiggevano era "di trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi. È verosimile - spiega la sentenza - che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli e questo anche perché, nonostante gli sforzi encomiabili di tutte le forze di polizia, si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell'intelligence". Secondo i magistrati fiorentini l'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992 in via D'Amelio a Palermo fu "una variante anomala", probabilmente perché il giudice aveva saputo della trattativa e vi si opponeva in quanto "rappresentava la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Falcone". A questo proposito pochi giorni prima del deposito della sentenza di Firenze, la procura di Caltanissetta ha emesso quattro ordinanze di custodia cautelare per altrettanti boss mafiosi coinvolti nella strage di via D'Amelio. Nelle 1.670 pagine dell'ordinanza si adombra addirittura che a condannare a morte Borsellino indicandolo ai mafiosi siano stati proprio gli apparati dello Stato, per togliere di mezzo un serio ostacolo alla trattativa: "Qualche servitore dello Stato, infedele, si spinse fino al punto di additare volontariamente Paolo Borsellino come ostacolo al buon fine della trattativa", scrivono infatti i magistrati nisseni. A conferma di ciò c'è la testimonianza del giudice Alessandra Camassa, che insieme ad un altro magistrato, pochi giorni prima dell'attentato, sentì Borsellino accennare sconvolto di essere stato "tradito da un amico". C'è poi la dichiarazione della vedova del giudice, Agnese, che quattro giorni prima dell'attentato sentì suo marito asserire che il generale Subranni era punciutu (mafioso): "Un'inquietante confidenza in relazione al capo dei Ros, proprio la struttura che stava conducendo la trattativa", osservano i pm di Caltanissetta. Dopo la strage di via D'Amelio, prosegue la sentenza di Firenze, la trattativa si arenò per qualche tempo (evidentemente c'era bisogno di tempo per depistare e far calmare le acque), ma poi riprese e non si arrestò più neanche quando, dopo l'arresto di Riina (15 gennaio 1993), la mafia sferrò un'altra serie di attentati contro chiese e monumenti, culminata con la strage di via dei Georgofili a Firenze. La sanguinosa strategia funzionò, perché l'allora ministro della Giustizia del governo Ciampi, Giovanni Consolo, revocò centinaia di decreti di carcere duro previsti dal 41 bis. Non riguardarono boss di primo piano, ma comunque, sottolineano i giudici, quelle revoche "potevano apparire come un sintomo di cedimento alla mafia". Furono un segnale, insomma. Tant'è che la Corte, che nel corso del processo aveva sentito sia l'ex ministro Consolo che quello dell'Interno, Nicola Mancino, annota che "dalla disamina delle dichiarazioni di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce un quadro disarmante che proietta ampie zone d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi". La sentenza affronta anche il problema del perché le stragi si fermarono all'inizio del '94, e se ci sia una relazione con l'avvento di Forza Italia. Allo stato di quanto processualmente accertato la Corte osserva che non hanno ricevuto una verifica giudiziaria, "neanche interlocutoria", le "gravi affermazioni" dei pentiti, come quelle di Spatuzza e di altri collaboratori, sui "nuovi referenti" della mafia individuati in Berlusconi e Dell'Utri. Così come "non ha trovato consistenza l'ipotesi secondo cui la nuova 'entità politica' che stava per nascere si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi". Tuttavia, aggiungono significativamente, ciò non esclude "che una svolta nella direzione politica del Paese fosse vista dalla mafia come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino". Così come "non rende impossibile che un canale di interlocuzione si fosse aperto con quel partito nella prospettiva di poter contrattare la fine delle stragi in cambio del riversamento di quel bacino di voti di cui tradizionalmente Cosa Nostra ha da sempre potuto disporre in Sicilia". Tanto è vero questo, sottolineano i magistrati fiorentini, che "le nuove prospettive politiche avevano indotto a rinunciare al progetto di creare un partito di mafia sotto l'etichetta di Sicilia libera", e che fu individuato in Vittorio Mangano (lo stalliere della villa di Arcore), l'uomo "in grado di interloquire con Marcello Dell'Utri, e questo a sua volta con Berlusconi". Insomma, per quanto la sentenza di appello e quella più recente della Cassazione abbiano creato tutte le premesse per portare alla prescrizione il processo a Dell'Utri, e per quanto anche la sentenza di Firenze venga interpretata a suo favore dai suoi tirapiedi e pennivendoli prezzolati vari, il senatore sodale di Berlusconi è tutt'altro che "estraneo" all'associazione mafiosa e il suo nome rispunta fuori da tutte le inchieste: come quella tuttora in corso a Palermo, dove Dell'Utri è iscritto nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia insieme a Mannino e a Mori. 6 giugno 2012 |