6° congresso del pc cubano revisionista I trotzkisti dell'Avana chiamano socialismo la restaurazione ufficiale del capitalismo Castro: "Rettificare e cambiare senza tentennamenti tutto ciò che va rettificato e cambiato" Nel 50° anniversario della vittoria della Baia dei porci, che sventò il tentativo degli USA di strozzare la giovane rivoluzione cubana e la spinse ad imboccare la via socialista, si è tenuto il 16 aprile all'Avana il 6° Congresso del Partito comunista cubano revisionista, con all'ordine del giorno la restaurazione ufficiale del capitalismo. Diciamo ufficiale perché di fatto l'economia socialista, se mai è veramente esistita nell'isola caraibica, era già stata inquinata e corrotta da anni dal ritorno a forme di capitalismo strisciante e diffuso. Solo che con questo Congresso la nuova leadership cubana di Raul Castro, che da qualche anno era subentrato al fratello Fidel a causa delle sue precarie condizioni di salute, e che ora ha preso anche ufficialmente il suo posto, vuol portare adesso il capitalismo, la proprietà privata e l'economia di mercato alla luce del sole e fare di essi la forza trainante della società, pur continuando ancora a chiamare tutto ciò socialismo. Il modello ispiratore dei leader trotzkisti dell'Avana è il capitalismo cinese, che infatti viene ancora spacciato per socialismo dai revisionisti di Pechino ma che in realtà è capitalismo a 24 karati, per molti aspetti ancor più selvaggio e privo di regole del capitalismo occidentale, e proprio per questo gli ha permesso di bruciare le tappe facendo della Cina una superpotenza mondiale a prezzo del supersfruttamento dei lavoratori e del depauperamento delle risorse e dell'ambiente naturale di quel già glorioso Paese socialista. Per far accettare ai lavoratori e alle masse popolari cubane la "nuova" politica economica Fidel Castro ha sostenuto che: "La nuova generazione è chiamata a rettificare e cambiare senza tentennamenti tutto ciò che va rettificato e cambiato". Più ricchezza "per tutti"? Certamente cinquant'anni di feroce embargo decretato dall'imperialismo USA, la fine dei finanziamenti sovietici dopo la dissoluzione dell'URSS (che Cuba aveva pagato con uno stretto vassallaggio politico e militare al socialimperialismo brezneviano, fino a diventarne un braccio armato mercenario al servizio del suo espansionismo nel Terzo Mondo) e la corruzione dilagante nell'apparato statale, hanno messo in ginocchio la popolazione dell'isola, sempre più alle prese con fame, carestie e miseria. Mentre l'apertura al turismo e ai capitali stranieri, le misure di graduale liberalizzazione del mercato, la reintroduzione parziale della proprietà privata della terra, delle case e delle piccole imprese, hanno fatto solo emergere una ristretta piccola borghesia relativamente benestante senza intaccare affatto le condizioni di miseria della stragrande maggioranza della popolazione. Proprio su questo vogliono ora far leva i leader revisionisti e trotzkisti dell'Avana: spingere cioè fino in fondo l'acceleratore sulle "riforme" capitaliste per non restare in mezzo al guado, seguendo la via già percorsa dai rinnegati russi e cinesi, agitando davanti alle masse lavoratrici e popolari cubane il miraggio di un domani più ricco "per tutti". La misura di più forte impatto simbolico di questa svolta verso la restaurazione ufficiale del capitalismo è l'abolizione della cosiddetta "libreta", la tessera egualitaria che dal 1962, data dell'embargo, consente a tutti i cubani di ottenere dai negozi di Stato una quota di alimenti base per il sostentamento a prezzo politico: riso, fagioli, latte, zucchero, uova, patate, sigarette, sigari, fiammiferi, sapone, assorbenti, e così via. Castro ha accusato la "libreta" di essere ormai "irrazionale e insostenibile" e ne ha annunciato la scomparsa promettendo che sarà "graduale" e proporzionale al miglioramento della produttività e dei salari, ma giustamente le masse popolari cubane più povere temono che si tratti solo di parole al vento per indorare loro la pillola da trangugiare. Meno Stato e più mercato Un'altra misura shock annunciata dai revisionisti cubani è il licenziamento di oltre un milione di dipendenti statali nell'arco di cinque anni, che dovranno arrangiarsi a trovare un lavoro nel settore privato "in ascesa". Vi saranno inoltre drastici tagli alla spesa pubblica ancora non ben delineati per non creare rivolte sociali, ma il timore diffuso è che possano riguardare i due settori da sempre fiore all'occhiello della società cubana rispetto alle altre nazioni latino-americane: la sanità e l'istruzione. Un timore più che fondato, dal momento che gli stessi dirigenti revisionisti e trotzkisti del PCC hanno chiarito che il principio ispiratore della svolta è lo stesso già ampiamente adottato da tutte le nazioni capitaliste in tutto il mondo: meno Stato e più mercato, ossia lo Stato ed il partito dovranno ritirarsi sempre di più dal controllo dell'economia e dal Welfare. Ecco allora che ai cubani sarà concesso per esempio di vendere e acquistare case, mentre fino ad oggi era permessa solo la cessione ai figli oppure lo scambio. Ed ecco che saranno allargate le concessioni di terre demaniali in affitto ad aziende agricole private. Così come le possibilità di impiantare imprese artigianali, commerciali, turistiche e alberghiere private, dove sono già state concesse 170.000 licenze a privati, soprattutto nel settore della ristorazione. Secondo Castro entro i prossimi tre anni il 40% del prodotto interno lordo cubano dovrà provenire dal settore privato. E entro cinque anni i cubani impegnati nel settore privato arriveranno a 1,8 milioni. Ovviamente, in parallelo con l'aumento dell'economia privata, saranno anche incoraggiati gli investimenti stranieri, con la "rassicurazione" che lo Stato si riserverà comunque il controllo delle imprese sul modello cinese. Non ci siamo mai fatti illusioni sul cosiddetto socialismo cubano, che è sempre stato secondo noi una variante del capitalismo burocratico di Stato di stampo revisionista e brezneviano, sia pure mascherato con venature ideologiche "terzomondiste" e trotzkiste, e perciò non ci stupisce che stia per fare la stessa fine che hanno fatto tutti gli altri Stati revisionisti, vedi in Russia e in Cina. Quello che ci indigna semmai, e che dovrebbe indignare tutti i sinceri fautori del socialismo, è il credito che continuano ad accordargli malgrado tutto i trotzkisti nostrani, che vorrebbero spacciare questa restaurazione ufficiale del capitalismo a Cuba - così come fanno in fondo anche per la Cina imperialista - per un semplice adeguamento tattico nel quadro di un'economia e una società rimaste nella sostanza di tipo socialista. È quel che si legge ad esempio su Liberazione del 21 aprile, laddove ha addirittura l'impudenza di paragonare la svolta capitalista di Castro alla NEP di Lenin del 1924, giudicandola cioè come una mossa necessaria per salvare il socialismo. E dove arriva addirittura ad affermare che se l'apertura agli investimenti stranieri può far correre a Cuba il rischio di trasformarla in "un bordello americano", la via da seguire per evitarlo è "la lezione cinese: apertura agli stranieri sì, ma con giudizio". 11 maggio 2011 |