Vittoria storica L'eroico popolo egiziano costringe Mubarak alle dimissioni Nel tentativo di non perdere il controllo dell'Egitto, Obama scarica il dittatore fascista, suo fedele alleato L'oppressore, affamatore e servo dell'imperialismo Hosni Mubarak si è dovuto dimettere sotto la pressione della mobilitazione dell'eroico popolo egiziano che per 18 giorni è sceso in piazza, si è difeso dalla repressione della polizia, costata oltre 300 morti, e dalle bande inviate dal partito del presidente a attaccare il presidio di piazza Tahrir, al Cairo; ha mantenuto una massiccia e costante mobilitazione nelle principali città, tenendo sotto assedio i palazzi istituzionali; ha portato a un primo, importante successo la rivolta divampata il 25 gennaio scorso, sull'onda della rivolta tunisina, e ha posto la parola fine ai 30 anni del regime di Mubarak. Una vittoria storica che incoraggia le lotte di tutti i popoli e che può aprire nuovi scenari nella regione, soprattutto se il popolo egiziano riuscirà a far fallire le manovre di una parte dei vertici militari che vorrebbero solo ripulire la facciata del regime, sostituirlo con uno nuovo ma sostanzialmente uguale, spalleggiati in particolare dall'imperialismo americano che tenta di non perdere il controllo del paese. La fine di Mubarak era annunciata l'11 febbraio dal vicepresidente Omar Suleiman che in un breve messaggio televisivo comunicava che "durante le difficili circostanze che sta attraversando l'Egitto il presidente Hosni Mubarak ha deciso di lasciare la carica di capo dello Stato e ha incaricato lo stato maggiore delle forze armate di amministrare gli affari del paese"; il presidente dimissionario lasciava la capitale per rifugiarsi nella sua residenza di Sharm el Sheikh, nel Sinai, mentre i poteri presidenziali passavano allo stato maggiore dell'esercito, guidato dal generale Mohammed Tantawi, il ministro della difesa. Piazza Tahrir al Cairo si stava riempiendo nuovamente di diverse centinaia di migliaia di dimostranti mentre altre decine di migliaia stavano circondando diversi sedi istituzionali e la televisione di Stato e si stavano avvicinando alla residenza presidenziale. La sera precedente Mubarak aveva annunciato solo il passaggio dei poteri ai militari ma ribadito la sua volontà di restare sulla poltrona presidenziale fino alle elezioni del prossimo settembre. La risposta delle opposizioni era stata la convocazione di nuove manifestazioni con la mobilitazione di 20 milioni di dimostranti in tutto il paese. Alla notizia delle dimissioni, un potente boato di gioia della folla si levava da piazza Tahrir, cosiccome dalle piazze delle altre città. Il primo obiettivo era raggiunto. La guida del paese è adesso in mano ai militari, al Consiglio militare supremo, di cui è portavoce il ministro della Difesa Tantawi, un fedele di Mubarak che ricopre la carica ministeriale da 20 anni. Ben visto a Washington e a Tel Aviv, come pure il vicepresidente Suleiman, l'ex capo dei servizi segreti. Secondo i meccanismi previsti dalla costituzione, la presidenza in caso di dimissioni doveva essere assunta dal presidente del parlamento in vista delle elezioni presidenziali da tenere entro 60 giorni. Una procedura che avrebbe investito del potere presidenziale Fathi Sorour, il presidente dell'assemblea dominata dai deputati del PND, il partito di Mubarak, eletta nel dicembre scorso tra brogli e frodi e delegittimata da un'altissima diserzione del voto. Il percorso scelto dal Consiglio militare supremo, e annunciato il 13 febbraio, prevede tempi più lunghi, un periodo di transizione della durata di sei mesi al termine dei quali ci saranno le elezioni presidenziali e politiche. La costituzione è stata sospesa e sarà emendata in base ai lavori di un'apposita commissione di 8 giuristi, insediatasi il 15 febbraio col compito di "emendare tutti gli articoli necessari per garantire la democrazia e l'integrità delle elezioni presidenziali e parlamentari", cancellando tra l'altro le norme che consentivano al presidente di rimanere in carica a tempo illimitato. Un lavoro da terminare entro il 25 febbraio. Nel comunicato si confermava la revoca delle leggi d'emergenza ma anche la composizione del governo del premier Ahmed Shafiq, nominato da Mubarak, e l'impegno "ad applicare tutti i trattati e i patti internazionali di cui l'Egitto fa parte", una rassicurazione indispensabile per Stati Uniti e Israele. In un comunicato precedente il Consiglio militare supremo aveva avvisato che gli scioperi e le proteste attuati dai lavoratori negli ultimi giorni per chiedere aumenti salariali e migliori condizioni di vita avrebbero potuto avere "effetti nefasti" contro il "clima favorevole" e di pace sociale che sarebbe necessario nel realizzare il percorso dei prossimi sei mesi. L'esercito aveva appena finito di smantellare il presidio della rivolta in piazza Tahrir ma le manifestazioni proseguivano a partire da quelle dei lavoratori del settore turistico e dei dipendenti di vari ministeri, accomunate dalla richiesta di aumenti salariali. Altre manifestazioni sono annunciate da parte dei dipendenti pubblici. La mobilitazione dei lavoratori di molti settori si era affiancata negli ultimi giorni alla rivolta per le dimissioni di Mubarak quando centinaia di migliaia di lavoratori scioperavano in tutto il paese. Il 10 febbraio si erano fermati gli autisti di autobus e degli altri mezzi di trasporto pubblici al Cairo; braccia incrociate anche dei 24 mila operai tessili di Mahallah, nella regione del delta del Nilo, e di altre migliaia nell'area del Canale di Suez. Solidarietà con i manifestanti di piazza Tahrir e aumenti salariali, le parole d'ordine della mobilitazione di operai e impiegati privati e pubblici nelle zone fuori la capitale. Una mobilitazione che continua. I lavoratori in sciopero davano un forte sostegno alla battaglia in piazza Tahrir al Cairo, di nuovo piena il 10 febbraio e ribollente di rabbia contro Mubarak non appena il presidente annunciava solo il passaggio dei poteri al suo vice e l'impegno a non ripresentarsi alle elezioni di settembre. "Andiamo al palazzo", sede della presidenza, per sloggiare Mubarak, gridavano i manifestanti che si davano appuntamento per il giorno successivo, con le opposizioni che organizzavano una mobilitazione ancora più grossa di quelle precedenti. E che costringeva alle dimissioni un Mubarak mollato anche dall'alleato americano. Il primo commento a caldo del presidente americano Barack Obama è stato: "siamo solo all'inizio della transizione egiziana". Che per l'imperialismo americano vuol dire un percorso che sostituisca il fidato ma screditato e indifendibile alleato Mubarak con un successore che continui a garantirgli il controllo del paese. Da tempo l'amministrazione americana si era infilata nelle contraddizioni interne al regime egiziano per pilotare la successione del dittatore; che non poteva essere il figlio Gamal, inviso ai militari divisi a loro volta in varie fazioni. Se anche il fidato vice Suleiman può essere considerato da Washington troppo compromesso con il decaduto regime ma pur sempre in grado di guidare un periodo di transizione, altri candidati si affacciano, dal generale Sami Enan, del Consiglio militare supremo, ai civili Mohammed El Baradei, l'ex responsabile dell'Agenzia per l'energia atomica dell'Onu, al segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, ex ministro degli Esteri. Se il pallino del periodo di transizione resterà nelle mani dei militari, fra questi candidati o altri possibili, Obama sponsorizzerà quello che gli garantirà che la rivolta popolare non prenda una piega per lui irrecuperabile, tipo la rivoluzione islamica iraniana di 32 anni fa, e porti al tracollo di altri regimi fedeli, a partire dallo Yemen, già messo in difficoltà dalle proteste popolari. La stabilità dell'Egitto e il suo ruolo di guardiano della regione per conto degli imperialisti e dei sionisti erano i due punti di riferimento dell'appoggio a Mubarak anche del governo italiano; un appoggio ribadito fino al 9 febbraio dal ministro degli Esteri Franco Frattini che difendeva a spada tratta il dittatore egiziano sostenendo che "Mubarak rimarrà in carica sino alla scadenza del suo mandato e non oltre, non mi pare che ci siano più dubbi al proposito". A distanza di soli due giorni era costretto a rettificare e a "prendere atto" delle dimissioni dell'amico di Berlusconi. Fra le felicitazioni al popolo egiziano per aver buttato giù Mubarak registriamo quella del portavoce di Hamas a Gaza, che l'11 febbraio ha affermato: "consideriamo le dimissioni di Mubarak come l'annuncio dell'inizio della vittoria della rivoluzione egiziana alla quale noi diamo il nostro appoggio in tutte le sue rivendicazioni". E ha chiesto "alla leadership egiziana di disporre immediatamente la revoca dell'assedio di Gaza e l'apertura del terminal egiziano" a Rafah, alla frontiera fra Gaza e l'Egitto. In attesa di risposta dal Cairo. 16 febbraio 2011 |