Al World economic forum di Davos La disuguaglianza economica e sociale preoccupa i governanti e gli economisti del capitalismo Temono nuove rivolte sociali "Impegnati a migliorare lo stato del mondo" era l'ambizioso titolo del World economic forum (Wef) di Davos, che si è svolto nella cittadina svizzera dal 27 al 30 gennaio e che ha visto la partecipazione di molti capi di stato e di governo, ministri economici, banchieri centrali e 1.400 manager. La crema del capitalismo mondiale ha affrontato il summit partendo da dati economici che ritiene indichino il superamento della crisi, quali la crescita dell'economia cinese del 10% all'anno, seguita dall'India con l'8,5% e dai primi passi degli Usa col segno positivo del 3%. Ma le attenzioni erano poste sul pericolo di nuovi rovesci economici e soprattutto sulle impennate dei prezzi dei generi alimentari e la crescita della diseguaglianza economica e sociale che potebbe innescare nuove rivolte sociali. Lo ha illustrato nel suo intervento il presidente dell'Indonesia, Susilo Yudhoyono quando ha sostenuto che "la prossima guerra economica sarà sui prezzi alimentari, sul pane e il riso, sulle penurie", di cui abbiamo già avuto i primi sintomi nelle rivolte popolari all'inizio del 2008 per l'aumento dei prezzi e che ebbe il suo epicentro in Nordafrica e per l'Asia nel suo paese. Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton e fino al mese scorso consigliere economico di Obama ha invece sottolineato il problema rappresentato dalla condizione dei giovani, con la metà della popolazione del pianeta che ha meno di 25 anni: "sono anche la fascia della popolazione che, dalla Spagna al Medio Oriente, soffre tassi di disoccupazione fino al 40%, il doppio degli adulti. Quante altre Tunisie vedremo esplodere?". Diversi economisti hanno puntato il dito sul pericolo di una nuova crisi finanziaria dato che "nei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) ci sono già le premesse per delle bolle speculative, se ci si aggiunge una fiammata d'inflazione ecco da dove partirà la prossima crisi finanziaria mondiale" ma la questione centrale è rimasta quella delle possibili rivolte sociali generate dalla fame e dalla crescita delle diseguaglianze sociali. Diseguaglianze accentuate dalla recessione tanto che già nel 2009, nel pieno della crisi economica, negli Usa il reddito del 5% dei più ricchi è ancora aumentato mentre fra i lavoratori e le masse popolari cresceva l'impoverimento. Un divario che avvicina gli Usa alla situazione di paesi emergenti come India e Russia, che in proporzione sul loro PIL, hanno la più alta percentuale di miliardari del mondo. La diseguaglianza sociale non è più un fenomeno che divide paesi ricchi e poveri, il G7 dagli altri o tra il Nord e il Sud del pianeta; la tumultuosa crescita economica delle nazioni emergenti si avvia a far sì che la distanza tra ricchi e poveri si evidenzia all'interno di ogni paese. Lo conferma uno studio dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) diffuso al summit secondo il quale in paesi come Stati Uniti, Italia, Germania e Gran Bretagna, "dalla metà degli anni Ottanta a oggi, la crescita del reddito della fascia al top della piramide, è stata due volte superiore a quella del resto della popolazione. In termini di allargamento delle diseguaglianze, le nazioni occidentali si sono omologate a India, Cina, Indonesia". Se i rappresentanti di quel 10% della popolazione mondiale che controlla l'83% di tutte le ricchezze del mondo arrivano a preoccuparsi del fenomeno, vuol dire che governanti e economisti capitalisti sono seriamente impauriti dal moltiplicarsi delle situazioni che vanno dalla Tunisia all'Egitto, al mondo arabo e non solo. 9 febbraio 2011 |